“nuove razze”

Mentre mi sto fermando intuisco da una mancanza di luce che il market è chiuso. Sarà stato il movimento, forse i miei pensieri, era come sospeso. Mi ha tirato giù un botto chiaro come la luce che entrava dal finestrino. Paura, era stato tutto rumoroso davanti a me, una macchina. Solo noi nel piazzale, dalla paura esce un omino magro impaurito + di me.. gesticola, continuo a toccare la macchina. ed avere paura. E più rendo chiaro lo spavento + siamo vicini. Chissà da quanto tempo qualcuno chiedeva del suo passato, chi è stato, cosa ti ha fatto cambiare, Mi vedi come un uomo? Sentire il tempo come carta vetrata, e il cervello che gira come quando avevi 15 anni. E ti sembrava di avere risolto il problema della vita. Limonando bici con bici. Mi ricordava mio padre gli occhi bagnati, “Cosa farò, quando lei se ne sarà andata”. La gente pensa che siccome sei vecchio te ne puoi anche andare. Ma il cervello và veloce. Il corpo magari ti lascia, lui no, sempre lì. In una sera nebbiosa. Se solo trovassi il coraggio! Essere lì mentre lui se ne andava.. Saresti morto, ma avresti capito come fare per trovare la via.. Un pensiero che arriva velocissimo come un diamante dritto in mezzo alla fronte. Ecco, ti si chiedeva di guardare in faccia la realtà, ti sei arreso alle tue debolezze, magari mettendoti dietro di loro.. e quando ti si offriva una vittoria comoda.. Non infierivi così nessuno ha capito. Poi cosa importa, tu puntavi in alto, obiettivo essere felice, chi poteva batterti! Chi poteva crederti? Meno ti credevano + ti arrendevi. Ho vissuto questa vita cercando la passione che mi ha guidato. Ora davanti a questo vecchio ritrovo dolcezza, cuore, domande… E sulla punta delle mie dita energia come un fiume caldo, mi parla della sua donna che non vuole perdere, penso a mia madre quando l’ ho persa. Il dolore è stato cosi grande che ho dimenticato il suo volto, era lei il motivo per essere, per diventare.. Mancata lei cosa valeva? Nulla. Fino in fondo, sul fondo, come quella notte.. via Ludovico il Moro Navigli.. Dopo vomitato è ancora più buona.. sempre più veloce, sempre più solo, non fare più l’ amore, chiusi in casa mesi, uscire solo per mangiare, giocare a Play notte e giorno, musica. Rock, erba. colazione.. erba. A notte fonda entrare in una fermata del Metro. x scattarsi una foto, e conservarla come un amico. Freddo, tanto freddo! Qualcuno s’incontra di dolce, mi dice il vecchio sorridendomi. La paura è passata, La macchina sembra a posto, e se gioco con il mio cuore. chi mi batte??

Cesare Mazzuccato

1 Commento

Archiviato in amici per sempre

ma chi è il babau?

Il Babau è l’ultima frontiera nella politica dell’ansia. Semplice e primordiale paura. Diverso dal terrore, più simile alla goccia che ti cade in testa e pian piano ti porta incosapevolmente alla pazzia. Il nostro buffo mondo sta prendendo coscienza dell’esistenza del Babau.

L’ansia di sicurezza, la paura del proprio simile, il rancore confuso e convulso che trasudano da ogni dove in questi anni difficili trovano la propria naturale conclusione nell’avvento del Babau.

Non ci sarà più bisogno di invocare/creare/inventare emergenze e pericoli, tutti avranno paura del buio e basterà invocare il Babau perché ogni complessa manovra di ingegneria sociale trovi una giustificazione.

Il Babau è meglio del terrore, perchè il Babau non ti uccide subito, ti logora e ti porta a modificare il tuo sguardo sulla realtà in un’ottica schizoide, che alimenta se stessa.

Nel paese del Babau può essere vero tutto e il contrario di tutto, il Babau non ti vuole sempre tristo e mogio. Il Babau porta anche allegria, folli risate che si alzano fino al cielo. Se non hai un soldo in tasca e la crisi ti divora, devi ridere, perché ci vuole ottimismo, altrimenti il Babau arriva e ti mangia.

Ma non devi sollazzarti troppo, perchè il Babau è in agguato e non ci vuole nulla perché ti rubi il bambino dalla culla, usurpi il tuo posto di lavoro, rubi la/il tua/o donna/uomo.

Prendendo in prestito brandelli di saggezza in pillole da Kurt Vonnegut, potremmo dire che in questo mondo delle mille e una oppurtunità di essere divorati dall’ansia, dalla paura e dall’angoscia, tutto quello che può accadere probabilmente accadrà. Scansatevi in tempo.

autistici inventati network

Lascia un commento

Archiviato in proteggi l'uomo!

“LA PAURA IN TASCA”

Non ti si legge in faccia la paura. A vederti in realtà sembri tranquillo. Sembri incosciente. Quando la sera esci a portare fuori il cane assapori il fresco silenzio delle strade deserte. E ti piace anche. Non sembri percepire i pericoli nascosti in ogni dove, le malevole intenzioni di chi incontri sul marciapiede di fronte. Fai male. Torni a casa la cena è pronta, accendi il telegiornale. E’ a quel punto che il tuo viso si trasforma, è in quel momento che prendi coscienza della tua avventatezza. Siamo tutti in pericolo, giorno dopo giorno minacciati da nemici astuti e nascosti o impudichi e sfrontati. L’ombra, lo sanno tutti, scaturisce sempre da una luce. La luce azzurrastra della televisione produce un’ombra enorme. Casa per casa, appartamento per appartamento, le ombre escono da ogni televisione e ci si infilano in tasca.                                                    

Così finisce che la mattina quando sali sull’autobus un’ombra ti è rimasta in tasca dalla sera prima. Il tuo viso si arriccia, le mani si rattrappiscono impaurite. Altre volte, per una frenata brusca dell’autista, capita che l’ombra ti scivoli di tasca. Rientra liquida nella borsetta della vecchia accanto e tu ti guardi intorno con il viso più disteso, scopri i visi arricciati degli altri e ti stupisci di quanto tutti siano diffidenti, di quanto l’autobus sia così pieno di gente sola. Altre volte ancora, (e sono momenti rari e preziosi), capita che sullo stesso autobus finiscano due persone a cui è cascata l’ombra di tasca. Chiaccherano, si sorridono, si scambiano magari anche due consigli e due battute sui visi arricciati intorno a loro.

Non che le ombre proiettate dagli alberi in autunno siano brutte. Sono malinconiche e necessarie. Ma le ombre che finiscono nelle nostre tasche ultimamente sono ombre artificiali, chimiche, mortifere. Quando esci di casa controlla sempre che non ti sia rimasta in tasca un’ombra televisiva. controlla che il tuo viso non sia arricciato per colpa delle parole di qualche stregone malevolo, che il babau non ti stia dietro le spalle mentre guardi male un ragazzino senza tasche e senza ombre da portarsi in giro.

autistici inventati network

Lascia un commento

Archiviato in kimerica, proteggi l'uomo!

“Vorrei nascere in tutti i paesi”

Vorrei nascere in tutti i paesi
perchè la terra stessa, come anguria,
compartisse per me
il suo segreto


e essere tutti i pesci
in tutti gli oceani
e tutti i cani nelle strade del mondo.
Non voglio inchinarmi
davanti a nessun dio, la parte non voglio recitare
di un hippy ortodosso
ma vorrei tuffarmi
in profondità nel Bajkal
e sbuffando
riemergere
nel Missisipi
Vorrei
nel mio mondo adorato e maledetto,
essere un misero cardo
non un curato giacinto,
essere una qualsiasi creatura di dio
sia pure l’ultima jena rognosa
ma in nessun caso un tiranno
e di un tiranno, nemmeno il gatto;
in nessun caso.
Vorrei essere uomo
in qualsiasi personificazione:
anche torturato in un carcere del Guatemala,
o randagio nei tuguri di Hong-Kong,
o scheletro vivente nel Bangladesh
o misero jurodivyj a Lhasa,
o negro a Capetown,
ma non personificazione della feccia.
Vorrei giacere
sotto il bisturi di tutti i chirurghi del mondo,
essere gobbo, cieco,
provare ogni malattia, ferita, deformità
essere mutilato dalla guerra
raccogliere luride cicche
purché in me non si insinui
il microbo ignobile della superiorità
non vorrei fare parte dell’élite
ma di certo neppure del gregge dei vigliacchi
né dei cani del gregge
né dei pastori che al gregge si conformano,
vorrei essere felicità
ma non a spese degli infelici
vorrei essere libertà, ma non a spese di chi è asservito.
Vorrei amare tutte le donne del mondoe vorrei essere donna anch’io
magari una volta soltanto…


madre-natura, l’uomo é stato da te defraudato.
Perché non dargli
la maternità?
Se in lui, sotto il cuore, un figlio
si facesse sentire così
senza un perché, certo l’uomo
non sarebbe tanto crudele.
Vorrei essere essenziale – magari una tazza di riso
nelle mani di una vietnamita segnata dal pianto,
o una cipolla nella brodaglia di un carcere di Haiti,
o un vino economico
in una trattoria di terz’ordine napoletana
e un tubetto, anche minuscolo, di formaggio
in orbita lunare;
che mi mangino pure
e mi bevano
purché nella mia morte ci sia una utilità.
Vorrei appartenere a tutte le epoche, far trasecolare la storia tanto da stordirla con la mia impudenza:
della gabbia di Pugacev segherei le sbarre
quale Gavroche introdottosi in Russia
condurrei Nefertiti
a Michajlovskol, sulla trojka di Psi^n
Vorrei cento volte prolungare la durata di un attimo
per potere nello stesso istante
bere alcool con i pescatori nella Lena
baciare a Beirut,
danzare in Guinea, al suono del tam-tam,
scioperare alla “Renault”,
correre dietro a un pallone con i ragazzi di Copacabana, vorrei essere onnilingue, come le acque segrete del sottosuolo
Fare di colpo tutte le professioni
e ottenere così che
un Evtusenko sia semplicemente poeta, un altro, militante clandestino spagnolo, un terzo, uno studente di Berkeley
e un quarto, un cesellatore di Tbilisi.
Un quinto – un maestro elementare in Alaska,
un sesto – un giovane presidente in qualche dove,
anche in Sierra Leone, diciamo,
un settimo –
scuoterebbe soltanto il sonaglio di una carrozza
e il decimo…
il centesimo…
il milionesimo…
Poco per me essere me stesso
tutti, fatemi essere!
E ciascun essere,
in coppia, come si usa.
Ma dio, lesinando la carta carbone
mi ha prodotto in un solo esemplare
nel suo bogizdat.
Ma a dio confonderò le carte. Lo raggirerò!
Avrò mille facce
fino all’ultimo giorno
affinchè la terra rimbombi per causa mia
e i computers impazziscano
per il mio universale censimento.

Vorrei
umanità
lottare su tutte le tue barricate
stringermi ai Pirenei,
coprirmi di sabbia attraverso il Sahara
e accettare la fede della grande fratellanza umana, e fare proprio il volto
di tutta l’umanità.
E quando morirò
sensazionale Villon siberiano
non deponetemi
in terra inglese
o italiana –
ma nella nostra terra russa,
su quella verde, serena collina,
dover per la prima volta io
mi sono sentito tutti.

Serghej Evtushenko

http://www.backpacker.it

Lascia un commento

Archiviato in il tuo impegno per la vita!, la musica per crescere!, nuovo mondo, proteggi l'uomo!, salva il mondo!

“LA PAURA IN TASCA”

Non ti si legge in faccia la paura. A vederti in realtà sembri tranquillo. Sembri incosciente. Quando la sera esci a portare fuori il cane assapori il fresco silenzio delle strade deserte. E ti piace anche. Non sembri percepire i pericoli nascosti in ogni dove, le malevole intenzioni di chi incontri sul marciapiede di fronte. Fai male.

Torni a casa la cena è pronta, accendi il telegiornale. E’ a quel punto che il tuo viso si trasforma, è in quel momento che prendi coscienza della tua avventatezza. Siamo tutti in pericolo, giorno dopo giorno minacciati da nemici astuti e nascosti o impudichi e sfrontati. L’ombra, lo sanno tutti, scaturisce sempre da una luce. La luce azzurrastra della televisione produce un’ombra enorme. Casa per casa, appartamento per appartamento, le ombre escono da ogni televisione e ci si infilano in tasca.Così finisce che la mattina quando sali sull’autobus un’ombra ti è rimasta in tasca dalla sera prima. Il tuo viso si arriccia, le mani si rattrappiscono impaurite. Altre volte, per una frenata brusca dell’autista, capita che l’ombra ti scivoli di tasca. Rientra liquida nella borsetta della vecchia accanto e tu ti guardi intorno con il viso più disteso, scopri i visi arricciati degli altri e ti stupisci di quanto tutti siano diffidenti, di quanto l’autobus sia così pieno di gente sola. Altre volte ancora, (e sono momenti rari e preziosi), capita che sullo stesso autobus finiscano due persone a cui è cascata l’ombra di tasca. Chiaccherano, si sorridono, si scambiano magari anche due consigli e due battute sui visi arricciati intorno a loro.
Non che le ombre proiettate dagli alberi in autunno siano brutte. Sono malinconiche e necessarie. Ma le ombre che finiscono nelle nostre tasche ultimamente sono ombre artificiali, chimiche, mortifere.
Quando esci di casa controlla sempre che non ti sia rimasta in tasca un’ombra televisiva. controlla che il tuo viso non sia arricciato per colpa delle parole di qualche stregone malevolo, che il babau non ti stia dietro le spalle mentre guardi male un ragazzino senza tasche e senza ombre da portarsi in giro.

autistici inventati network

2 commenti

Archiviato in proteggi l'uomo!

“gratis come la birra”

Quando ero all’università ho frequentato due corsi introduttivi di economia: microeconomia e macroeconomia. Macroeconomia era piena di teorie come “la disoccupazione causa l’inflazione” che hanno poco a che fare con la realtà. La microeconomia invece era bella e utile: era piena di interessanti concetti sulla relazione fra domanda ed offerta, che funzionano veramente. Per esempio insegnavano che se avete un concorrente che abbassa i prezzi, la richiesta per il vostro prodotto scende finché non abbassate anche voi i prezzi come il vostro concorrente.

Nel capitolo di oggi mostrerò come uno di questi concetti spiega molte cose su alcune ben note società di computer. Riflettendoci sopra ho notato alcuni aspetti interessanti sul software open source: la maggior parte delle società che spendono un sacco di soldi per sviluppare software open source lo fanno perché è una buona strategia di business, non perché improvvisamente hanno smesso di credere nel capitalismo per convertirsi ed innamorarsi del concetto libertà di parola.

Nel mercato ogni prodotto ha un sostituto ed un complemento. Un sostituto è un prodotto alternativo che puoi comprare nel caso in cui il primo sia troppo costoso. La carne di pollo è un sostituto per quella di manzo. Un allevatore di polli venderà di più quando il prezzo della carne di manzo cresce, perché le persone preferiranno comprare il pollo.

Un complementare è un prodotto che normalmente viene acquistato insieme ad un altro. Benzina ed automobili sono complementari. L’hardware dei computer è un classico complementare dei sistemi operativi; le babysitter sono complementari ad una cena fuori. In una piccola città quando i 5 ristoranti locali fanno un’offerta ‘paghi 1 mangi in 2’ per il giorno di San Valentino, le babysitter raddoppiano il loro prezzo. (Beh, altre babysitter ancora più giovane verranno assunte prima del solito.)

A parità di altri fattori, la domanda per un prodotto aumenta quando il prezzo del suo complementare diminuisce.

Fatemelo ripetere, nel caso vi siate appisolati nel frattempo, perché è un concetto importante: la domanda per un prodotto aumenta quando il prezzo del suo complementare diminuisce. Per esempio: se scendono i prezzi dei voli per Miami, la richiesta per gli alberghi a Miami aumenta – perché più persone voleranno a Miami e vorranno una camera in albergo. Quando i computer diventano più convenienti più persone li comprano ed avranno bisogno del sistema operativo; dunque aumenta la richiesta per i sistemi operativi ed il loro prezzo sale.

A questo punto è piuttosto comune confondersi le idee e dire: “eh sì! Ma Linux è GRATIS!”, OK. Prima di tutto quando un economista parla di prezzo prende in considerazione il costo totale, che comprende il costo di beni non materiali come, per esempio, il tempo necessario per installarlo, fare nuovi corsi di formazione ed adattare i processi già esistenti; tutte quelle cose che ci piace chiamare “total cost of ownership“.

In secondo luogo, usando l’altra famosa argomentazione, free-as-in-beer (“gratis” come lo sarebbe la birra), i sostenitori dell’open source cercano di convincersi di non essere soggetti alle regole dell’economia: possono moltiplicare il costo quanto vogliono tanto sarà sempre zero. Ecco un esempio. Quando Slashdot ha chiesto al Moshe Bar, sviluppatore di Linux, se in futuro il kernel sarebbe stato compatibile con tutti i driver esistenti egli ha risposto che non ce n’era la necessità: “il software proprietario ha un costo di 50-200 dollari per linea di codice debuggato. Questo costo non si applica al software open source.” Moshe afferma quindi che non c’è nessun problema nel riscrivere tutti i driver per ogni nuova versione del kernel, perché il costo per riscrivere anche quelli già esistenti è zero. Questo è completamente sbagliato: egli sostiene che impiegare una certa quantità di tempo, minima, di programmazione per rendere il nuovo kernel compatibile con la versione precedente, oppure spendere un sacco di tempo per riscrivere tutti i driver, abbia lo stesso costo perché in entrambi i casi la quantità di tempo impiegata è moltiplicata per il “costo” di programmazione, che egli crede essere zero.

Questo è a prima vista un ragionamento errato. Le migliaia o milioni di ore di programmazione necessarie per correggere ogni driver di periferica prima o poi qualcuno le dovrà pagare. E finché si procede in questo modo, Linux sarà ancora una volta in svantaggio rispetto al mercato perché non può supportare tutto l’hardware esistente. Non sarebbe meglio usare tutto questa fatica a “costo zero” per sviluppare uno Gnome migliore? O per supportare il nuovo hardware?

Il codice debuggato, che sia proprietario o open source, NON è gratis: anche se non lo paghi in contanti ha dei costi di opportunità mancate e di tempo. Non sono infiniti i volontari capaci disponibili per sviluppare open source. Ogni progetto open source è in competizione con altri progetti open source nel condividere le stesse risorse e solo i progetti più accattivanti trovano più volontari disponibili di quelli necessari. Per riassumere: non mi impressionano quelli che cercano di dimostrare concetti di economia selvaggia come il software cosiddetto free-as-in-beer (“gratis” come lo sarebbe la birra), perché penso che semplicemente sbaglino dividendo per zero da qualche parte.

L’open source non è esente dalle leggi di gravità o di economia. Abbiamo visto Eazel, ArsDigita, La Ditta Precedentemente Nota Come VA Linux e molti altri tentativi. Ma qualcosa sta ancora andando avanti, qualcosa che solo pochi nel mondo dell’open source realmente capiscono: un sacco di grandi società quotate in borsa, con la responsabilità di massimizzare il valore delle loro quote verso i loro azionisti, stanno investendo ingenti quantità di denaro per supportare il software open source; solitamente pagando grandi team di sviluppatori per lavorarci sopra. E questo si spiega facilmente se riprendiamo il principio dei prodotti complementari.

Ancora una volta: la domanda per un prodotto aumenta quando il prezzo del suo complementare diminuisce. In generale, un interesse strategico per una società è fare in modo che il prezzo dei prodotti complementari ai loro sia il più basso possibile. Il più basso costo sostenibile teoricamente sarebbe il cosiddetto prezzo calmierato — il prezzo che si ottiene quando vi sono un sacco di concorrenti che offrono prodotti uniformi ed indistinguibili, prodotti che diventano una commodity. Quindi:

Le società intelligenti cercano di rendere commodity i prodotti complementari ai loro.            


Se riuscite a far questo, la richiesta per il vostro prodotto aumenta e potete farlo pagare sempre di più.

Quando la IBM ha progettato l’architettura del PC, ha usato componenti standard anziché proprietari, e ha accuratamente documentato tutte le interfacce fra i componenti nel (rivoluzionario) IBM-PC Technical Reference Manual. Perché? Affinché altri costruttori prendessero parte al gioco: qualunque cosa soddisfi le specifiche dell’interfaccia può essere utilizzate nei PC. Lo scopo di IBM era di rendere una commodity i componenti, che sono i complementari dei PC, e, decisamente, ci sono riusciti: nel giro di poco tempo sono spuntate come funghi società che offrono memorie, hard disk, schede video, stampanti ecc. Componenti a buon mercato comporta maggiore richiesta di PC.

Quando IBM ha ottenuto in licenza da Microsoft il sistema operativo MS-DOS, Microsoft ha fatto attenzione a non dare una licenza esclusiva. Questo ha fatto si che Microsoft potesse dare in licenza lo stesso sistema anche a Compaq ed altri costruttori che avevano copiato, sia chiaro legalmente, i PC da IBM, usando la documentazione di IBM stessa. Lo scopo di Microsoft era di fare dei PC una commodity. Molto presto il PC in sé è divenuto una commodity, con prezzi sempre più bassi, prestazione sempre in crescita e margini talmente ridotti che è diventato estremamente difficile farci del profitto. Il prezzo basso, ovviamente, fa aumentare la richiesta. L’aumento della richiesta per i PC comporta l’aumento della richiesta anche per i loro complementari, MS-DOS. A parità di altri fattori, maggiore è la richiesta per un prodotto, più soldi riesci a farci. Ecco perché Bill Gates ora potrebbe comprare la Svezia e voi no.

In questo periodo Microsoft ci sta provando un’altra volta con Xbox: questa nuova console fa uso di componenti per PC, già commodity, anziché componenti su misura. La teoria (spiegata in questo libro) era che l’hardware commodity diventa ogni anno più a buon mercato, cosicché il prezzo di Xbox cala. Sfortunatamente sembra che la teoria stia fallendo: evidentemente i prezzi dell’hardware sono già stati spremuti fino all’osso, il costo di Xbox quindi non scende così in fretta come invece avrebbe fatto piacere a Microsoft. Un altro aspetto della strategia di Xbox era l’uso di DirectX, una libreria grafica che permette di scrivere programmi che funzionano su ogni tipo di chip video. Lo scopo in questo caso è di fare dei chip video una commodity, per minimizzarne il prezzo, in modo da poter vendere più videogiochi, che è un prodotto con cui veramente si fanno i soldi. E perché non sono i produttori di chip video che cercano in qualche modo di rendere i giochi una commodity? Questo è assai più difficile. Se il gioco Halo sta vendendo alla grande, è perché non c’è un vero sostituto. Se andate al cinema per vedere “Star Wars II – l’attacco dei cloni” non sarete altrettanto soddisfatti se al suo posto vi fanno vedere un film di Woody Allen. Saranno entrambi grandi film, ma non sono fra loro interscambiabili. A questo punto ditemi voi: preferireste essere un casa produttrice di videogiochi o un venditore di chip video?

Fate dei prodotti complementari ai vostri una commodity.

Capire questa strategia ci fa andare molto, molto avanti nello spiegare il perché molte società stanno investendo grandi capitali nell’open source. Andiamo quindi nel dettaglio e vediamo alcuni esempi.

Esempio: IBM spende miliardi per sviluppare software open source

Luogo comune: lo fanno perché Lou Gerstner ha letto il manifesto della GNU, ha visto la luce e si è convertito contro il capitalismo.

La realtà: lo fanno perché IBM sta diventando una società di consulenza informatica. La consulenza informatica è complementare al software aziendale. Quindi IBM ha bisogno di rendere il software aziendale una commodity e il miglior modo di farlo è supportando l’open source. Nota bene: il loro settore consulenza sta riscuotendo un grande successo grazie a questa strategia.

Esempio: Netscape ha distribuito il suo browser come open source.

Luogo comune: lo stanno facendo per avere gratis il contributo di programmatori dagli internet cafè in Nuova Zelanda.

La realtà: lo fanno per rendere i browser una commodity.

Questa è stata la strategia di Netscape fin dall’inizio. Guardate il primissimo comunicato stampa di Netscape: il browser è “freeware”. Netscape ha regalato il suo broswer per poter fare soldi sul lato server. Browser e server sono due tipici prodotti fra loro complementari. Più è basso il prezzo del browser, più server si vendono. Non è mai stato così vero come nell’ottobre del 1994. (Fu davvero una sorpresa per Netscape quando MCI è arrivata ed ha messo sul tavolo così tanti soldi che persino loro hanno capito che potevano fare soldi anche con il browser. E questo non era previsto nel piano di gestione.)

Quando Netscape ha rilasciato Mozilla come software open source, lo ha fatto perché pensavano di abbassare i costi di sviluppo del browser; potevano quindi ottenere i vantaggi di una commodity ad un prezzo più basso.

Più avanti AOL/Time Warner ha acquisito Netscape. Il software dei server, che si supponeva beneficiasse della commodity browser, non stava andando cosí bene e fu scaricato. Ora: perché AOL/Time Warner dovrebbe continuare ad investire nell’open source?

AOL/Time Warner è una società di intrattenimento. Le società di intrattenimento sono complementari ad ogni tipo di piattaforma per distribuzione di intrattenimento, compresi i browser. L’interesse di questo impero è di fare delle piattaforme per la distribuzione dell’intrattenimento – i browser – una commodity, per le quali nessuno può chiedere soldi.

Il mio ragionamento è un po’ contorto per il fatto che Internet Explorer è di fatto free-as-in-beer (“gratis” come lo sarebbe la birra). Anche Microsoft voleva fare dei browser una commodity per poter vendere sistemi operativi per PC e server. Neoplanet, AOL, e Juno hanno usato questi componenti per creare i loro browser web. Visto che IE è gratis, quale motivo ha Netscape di fare un browser ancora più “gratis”? E’ una mossa preventiva: hanno bisogno di prevenire il monopolio di Microsoft nei browser web, anche se gratis, perché ciò permetterebbe a Microsoft di aumentare i prezzi del browser in altri modi; per esempio aumentando il prezzo di Windows.

(Il mio ragionamento è ora ancor più debole perché è piuttosto evidente che Netscape ai tempi di Backsdale non aveva idea di quello che stava facendo. Una spiegazione più verosimile è che i più alti dirigenti fossero tecnicamente incapaci, e non avevano altra scelta che assecondare ciò che di volta in volta proponevano gli sviluppatori. Gli sviluppatori erano hacker, non economisti, e solo accidentalmente facevano proposte utili per la loro strategia… Ma lasciamo loro il beneficio del dubbio.)

Esempio: Transmeta assume Linus e lo paga per smanettare su Linux.

Luogo comune: l’hanno fatto per avere un po’ di pubblicità. Avreste mai sentito parlare di Transmeta altrimenti?

La realtà: Transmeta è una società che produce CPU. Il complemento naturale della CPU è il sistema operativo. Transmeta ha bisogno che il sistema operativo sia una commodity.

Esempio: Sun e HP pagano Ximian per smanettare su Gnome.

Luogo comune: Sun e HP supportano il free software perché preferiscono i Bazar alle Cattedrali.

La realtà: Sun e HP sono società che producono hardware: fanno scatole chiuse. Per fare soldi con i PC hanno bisogno che i sistemi operativi a finestre, che sono un complemento del computer, siano una commodity. Perché non usano i soldi che stanno dando alla Ximian per sviluppare invece un sistema a finestre proprietario? Ci hanno provato (Sun aveva NeWS ed HP aveva New Wave), ma Sun e HP sono nel profondo vere e proprie società di hardware, la loro esperienza nel software è primitiva ed il sistema operativo per loro deve essere una commodity a basso costo, e non un elemento proprietario di vantaggio su cui dover spendere dei soldi. Così hanno stipendiato quei cari ragazzi alla Ximian per realizzarlo per lo stesso motivo per cui Sun ha comprato Star Office e l’ha reso open source: per rendere il software una commodity e fare i soldi con l’hardware.

Esempio: Sun sviluppa Java; con il nuovo sistema “Bytecode” scrivi un codice che gira ovunque.

L’idea del bytecode non è nuova — i programmatori provano da sempre a fare in modo che il loro codice giri su quante più architetture hardware possibili. (Ecco come potete rendere una commodity il prodotto complementare!). Per anni Microsoft ha avuto il suo compilatore p-code e una interfaccia a finestre trasferibile su diverse architetture che permette di avere Excel su Macintosh, Windows ed OS/2, ed indifferentemente su chip Motorola, INTEL, Alpha, MIPS e PowerPC. Quark ha una interfaccia che fa funzionare codice scritto per Macintosh su Windows. Il linguaggio di programmazione C si può definire un linguaggio assembler indipendente dall’hardware. Per uno sviluppatore questa non è proprio una nuova idea.

Se potete far girare il vostro software ovunque, l’hardware può essere ancora di più una commodity. Appena i prezzi dell’hardware scendono, il mercato si espande facendo aumentare la domanda per il software (e lasciando in tasca ai clienti più soldi da spendere nel software che a questo punto può anche essere più costoso).

L’entusiasmo che Sun esprime per WORA è, beh, strano, perché Sun è una società che fa hardware: rendere l’hardware una commodity è l’ultima cosa che dovrebbe fare.

Oooooooooooooooooooooops!

Sun è il cavallo impazzito del mercato dei computer; incapace di vedere oltre la loro furiosa paura e ripugnanza per Microsoft, adotta strategie basate più sulla rabbia che sul suo interesse. Le due strategie di Sun sono (a) rendere il software una commodity promuovendo e sviluppando free software (Star Office, Linux, Apache, Gnome, ecc.), e (b) rendere l’hardware una commodity promovendo Java, con l’architettura bytecode e WORA. Ok, Sun, nel vecchio gioco delle sedie, quando finisce la musica su quale sedia ti siedi? Senza un prodotto proprietario, che sia software o hardware, devi prendere i margini che ti dà una commodity, che a malapena coprono i costi di economiche fabbriche in Gauadalajara, non dei tuoi lussuosi uffici nella Silicon Valley.

“Ma Joel!” – sento un grillo nelle orecchie- “Sun sta cercando di rendere una commodity i sistemi operativi, esattamente come Transmeta, e non l’hardware.” Forse, ma il fatto che il bytecode Java di fatto rende anche l’hardware una commodity è un danno collaterale piuttosto significativo da sostenere.

Un interessante corollario a tutto questo discorso è il fatto che tutti questi esempi mostrano come sia facile per il sofware rendere l’hardware una commodity (devi solo aggiungere un livello di astrazione, come HAL di Windows NT, che è un minuscolo pezzo di codice), ma è incredibilmente difficile per l’hardware fare del software una commodity. Il software non è interscambiabile, come sta imparando il gruppo marketing di StarOffice: anche se il prezzo è zero, il costo per passare da Microsoft Office a StarOffice non è zero. Finché il costo del passaggio non è zero il software per i PC non sarà mai una vera commodity. Anche la minima differenza può rendere una pena passare da un software all’altro. Nonostante il fatto che Mozilla abbia tutte le prestazioni che voglio e che amerei utilizzarlo foss’altro per liberarmi di quelle insistenti finestre di pop-up di pubblicità sui giochi, sono troppo abituato a premere Alt+D per andare alla barra dell’indirizzo. Allora fatemi causa. Una sola minuscola differenza e perdi lo status di commodity. Invece ho estratto hard disk da un PC IBM e li ho messi in un PC Dell e, bam!, il sistema si accende e funziona come se fosse ancora sul vecchio computer.

Amos Michelson, il CEO di Creo, mi ha detto che ogni dipendente della sua ditta deve andare ad un corso che lui chiama “il pensiero economico.” Idea grandiosa! Anche semplici concetti di microeconomia danno una marcia in più per comprendere alcuni fondamentali mutamenti del giorno d’oggi.

Traduzione dell’articolo originale inglese dal titolo Strategy Letter V

gallery

Joel Spolsky è il fondatore della Fog Creek Software, una piccola ditta di software a New York. Laureato alla Università di Yale, ha lavorato come programmatore e manager presso Microsoft, Viacom e Juno.

Di Joel Spolsky
Tradotto da Giacomo Coppo
Redatto da Cam Fordyce, Marco Menardi

1 Commento

Archiviato in nuovo mondo

poteri

Le condizioni che, negli ultimi anni, hanno permesso al verbo e al credo revisionista di uscire dai circoli ristretti in cui era costretto, l’affermarsi di una sorta di relativismo generalizzato:

“tutti i punti di vista si equivalgono, non c’è più criterio che permetta di distinguere chiaramente il vero dal falso, il reale dall’illusorio, il bene dal male; a ciascuno forgiarsi la sua opinione, e d’altronde tutte le opinioni sono accettabili quando sono sincere. Questa assenza di criteri è del resto celebrata dall’ideologia postmodernista come una liberazione, come l’accesso a un mondo in cui l’individuo può moltiplicare i punti di vista, simultaneamente o successivamente: intrecciarli senza curarsi della loro coerenza, o praticare una sorta di nomadismo identitario, cambiando di ‘visione del mondo’ come di camicia”[1].

Le reti telematiche sono diventate uno dei luoghi privilegiati di riproduzione e sperimentazione di questo relativismo, popolarizzato da riviste come Wired: “All’improvviso, la tecnologia ci ha dato poteri che ci permettono di manipolare non solo la realtà esterna, il mondo che ci circonda, ma anche e soprattutto noi stessi. Potete diventare tutto quello che volete essere”.[2]

Per questo sarebbe sbrigativo e troppo facile liquidare l’utilizzo delle reti da parte del revisionismo telepragmatico come un semplice epifenomeno. Non si tratta di un effetto collaterale, ma di una reale deriva del nomadismo identitario.

incidenze a etichette

Lascia un commento

Archiviato in la musica per crescere!, proteggi l'uomo!, se ti fà stare bene dillo!

cosa abbiamo fatto allo sport dei rè?


Stuart Butler l’amore per il viaggio lo ha scoperto per caso. Da piccolo, sulla costa francese, i suoi genitori gli raccontavano dei loro viaggi hippy insegnandogli a rispettare la natura e ad amare gli animali. Da questo passione per la natura trasmessagli è nato il desiderio di conoscere ed esplorare posti nuovi nel mondo. Tutto è iniziato facendo l’autostop sulla costa francese con sottobraccio la tavola da surf e ritrovandosi in un viaggio fantastico con pochi soldi in tasca che lo ha portato in Marocco e poi ancor più giù. Da quel viaggio Stuart ha poi girato il mondo laddove c’erano onde da surfare: dall’Etiopia al Pakistan, dall’India alla Mauritania. Curioso per natura, avverso alla scena troppo colorata del surf spettacolo, desideroso di entrare in diretto contatto con le realtà locali, spesso fatte di villaggi sperduti, luoghi impervi e per nulla turistici, Stuart Butler oggi scrive guide di surf, gira video dai suoi surf trip in giro per il mondo e si conferma essere un grande viaggiatore alla scoperta di onde lontane che attendono di essere surfate in santa pace.

Sono tornato, sono di nuovo qui, ma nulla tornerà più come prima. La mia vita ha preso una strada che ancora non conosco.
Sono appena tornato da un luogo in cui la vita di un uomo costa quanto una pallottola di Kalashnikov. Nel mondo occidentale mi sento sicuro. Qui la mia vita vale più di una pallottola ma sono anche disilluso e stanco. Nel giardino del Profeta non ero al sicuro ma ero vivo. Ed è stato tra le sue dune che sentimenti e pensieri da tempo latenti nella mia mente si sono cristallizzati in una solida convinzione ed in un sentimento potente come l’Odio. Odio quello che abbiamo fatto al surf e all’oceano e provo terrore verso il futuro.

Tavola e kalashnikov!

Nel giardino del Profeta ho pensato l’impensabile: mi sono accorto di odiare il mondo del surf e la sua immagine. Di odiare tutto quello che il surf rappresenta. Odio Hossegor, Newquay e la California, odio chi sta tentando di propinarci oggetti inutili utilizzando l’immagine “cool” del surf, odio il fatto di dover essere un clone, uguale a tutti gli altri per dimostrare al resto del mondo di essere diverso. Ma più di tutti odio gli interessi milionari che hanno permesso ed incoraggiato tutto questo. Il modo in cui questa consapevolezza ha preso forma in me è strano in quanto è avvenuto durante il surf trip più puro della mia vita e surfando onde che tutti i surfisti sognano. Ma forse proprio questo è stato il punto di svolta. Naturalmente io adoro surfare. Attorno a questo semplice gesto ha ruotato tutta la mia vita. La mia è in verità una fuga. L’esigenza di staccare col mondo degli sponsor, dell’Aloha e dei festival a tema e di rifugiarmi in un luogo selvaggio, pristino, un luogo dove ti aspetti di trovare idee, visioni profetiche, non surf-shop: un luogo come lo Yemen.

Lo Yemen è situato all’estremità Sud della Penisola Arabica, e confina con stati “tranquilli” come Oman, Arabia Saudita e, oltre il Golfo di Aden, Etiopia e Somalia. Lo Yemen è sempre stato un paese libero. Dalle oasi di Marib un tempo passavano le piste carovaniere, controllate dalla famosa e bellissima Bilqis, amante del re Salomone e conosciuta a i più come Regina di Saba. Sotto la sua autorità lunghe file di cammelli trasportavano preziose mercanzie attraverso il deserto fino alle coste del Mediterraneo. E’ dallo Yemen che provenivano l’incenso e la mirra portati dai Magi in dono a Betlemme. Il nostro primo incontro col più mistico dei paesi islamici avviene nella capitale. Sana è una città fin troppo dolce: non esiste un luogo tanto romantico e vitale in tutto l’Islam. Da Sana alla costa la strada attraversa alte montagne ed infinite dune di un tenue rosa pesca.

Non so cosa abbia spinto Brandon, Toby e me ad affrontare cinque giorni di deserto per cercare onde in Yemen. Sicuramente non siamo partiti con l’idea di trovare un profeta e, men che meno, ci aspettavamo un luogo tanto puro e bello da far vacillare tutte le nostre convinzioni sul surf. Sapevamo però che in Yemen anche l’impossibile può accadere e l’irreale si intreccia quotidianamente col mondano. Questa dicotomia si manifesta appena fuori Sana al checkpoint militare. Da questa parte tutto sembra calmo e normale ma mentre attraversiamo vedo i soldati diventar piccoli e sparire nello specchietto retrovisore e mi accorgo che è dall’altra parte del filo spinato che comincia il mondo vero. Da sotto i sedili della Jeep i nostri accompagnatori estraggono fucili e granate. Ad ogni villaggio il nostro bagaglio di armi cresce. La popolazione yemenita è in assoluto la più armata al mondo con 60 milioni di armi da fuoco in mano ad una popolazione di appena 18 milioni. Tutto quello che vuoi da un coltello ad una testata nucleare può essere acquistato nei tanti mercati d’armi che attraversiamo. I Kalashnikov costano 300 Dollari e se non ti basta puoi sbizzarrirti tra bombe a mano, mitragliatrici, lanciarazzi e fucili anticarro.

grattacieli di fango

Oltrepassato il checkpoint di Sana la vita di tutti ruota attorno all’onore e all’orgoglio tribale. La tribù è tutto per uno Yemenita visto che il volere delle tribù ha la priorità persino sulle leggi dello stato. La vita tribale è orgogliosamente tradizionalista e rifiuta ogni autorità esterna: la legge che regna è quella di “occhio per occhio”. In Yemen le faide tra famiglie durano per generazioni e si trasformano spesso in vere e proprie battaglie con decine di morti da entrambe le parti. Dopo la tribù e la famiglia viene la religione che qui è vissuta in maniera molto tradizionale.
Niente accade senza la volontà di Dio, recita il Corano e pare proprio che questo Dio non voglia far precipitare la sua gente nel turbine della vita moderna come la intendiamo noi. Siamo sulla prima linea della “Lotta al Terrore” di Bush e ad ogni checkpoint siamo invitati a mostrare i permessi di transito, tra carri armati e cannoni. La nostra presenza viene anticipata ogni volta via radio al checkpoint successivo il quale ha il compito di venirci a cercare in caso non arrivassimo nel tempo stabilito. Il pericolo di essere rapiti è reale nel deserto.

Tra un presidio militare e l’altro siamo in mano a simpatizzanti di Al Qaeda e questo pensiero non ci rassicura. Otto anni fa nel mio primo viaggio in Yemen, mi fu intimato di andarmene immediatamente da Marib o sarei stato rapito in capo a pochi minuti. L’odio verso l’occidente ed i rapimenti da allora sono addirittura cresciuti. Pochi anni fa un membro del parlamento arrivò a sostenere che essere rapiti era un buon modo per conoscere l’ospitalità e le tradizioni delle tribù. Anche il grottesco è reale in Yemen.
Il Profeta Maometto descrisse gli Yemeniti come il popolo più amabile e gentile del mondo. Nonostante l’apparenza minacciosa questo è ancora vero oggi, ce ne danno una dimostrazione i nostri accompagnatori che nonostante ci costringano a dormire armati, si dimostrano gentilissimi e disponibili a fare due chiacchiere. Il capo del nostro gruppo e la guida.

Mohammed ha abitato alcuni anni negli Stati Uniti prima di accorgersi che non era un buon posto per mettere su famiglia. Allora è tornato nel suo villaggio natale tra le sue amate montagne portandosi in valigia alcuni fucili come souvenir. Una volta tornato a casa è rimasto invischiato in ogni sorta di avventure tribali non ultima uno scontro armato che gli ha fatto perdere un fratello ed uccidere due mèmbri della fazione opposta. Dopo un assedio di sei mesi ed infiniti negoziati tra i due villaggi, a Mohammed venne risparmiata la pena capitale ma passo due anni in carcere per bilanciare l’offesa inflitta. E Mohammed non è nulla se paragonato alle timide guardie Beduine che ci accompagnano: un team di padre e figlio onginari del deserto attorno a Marib. Sono uomini duri silenziosi anche per via del lutto che portano per i famigliari caduti appena quindici giorni fa negli scontri.

Nel loro paese natale i bambini maneggiano armi ancor prima di camminare. Oggi i due si guadagnano ufficialmente da vivere guidando una Jeep senza targa nel deserto, proteggendo i viaggiatori dalle altre tribù e spostando illegalmente armi tra Arabia Saudita, Oman, Damasco e Baghdad. Anche loro come Mohammed hanno divertenti storie da raccontare. Ali, il padre, mentre mi mostra tre fori di pallottola, mi racconta di quando la sua Jeep venne colpita da un razzo. I due non ci nascondono che, se incontrassimo membri di una famiglia rivale, si verrebbe subito allo scontro armato indipendentemente dalla nostra presenza. Il primo incontro con l’oceano dopo un viaggio di cinque giorni è sempre pieno di aspettativa e tensione. Ne sarà valsa la pena? Troveremo la nostra Kirra dietro il promontorio? In vero dopo tanto deserto, splendide oasi e grattacieli di fango il viaggio si è trasformato di per sé in ricompensa. Il giardino del Profeta però ha in serbo molte altre sorprese, non ultime le onde.

Sbuchiamo dal deserto vicino al confine con l’Oman ed è ai piedi di montagne fiorite che riceviamo il regalo del Profeta. I monti si sciolgono in mare creando una serie infinita di baie. La nostra prima visione del blu è accompagnata da picchi altezza-testa che frangono a perdita d’occhio su reef e spiagge completamente deserte. Le mareggiate che generano queste onde provengono dall’intensa bassa pressione stagionalmente presente nel Golfo Arabico, un fenomeno legato al sistema monsonico indiano e quindi affidabilissimo. Il potenziale in onde di quest’area è tale da far impallidire le coste atlantiche europee ed anche molte surf-mecca di fama mondiale.

Durante le tre settimane spese in Yeman abbiamo surfato ogni singolo giorno onde mai sotto il metro. Negli ultimi 3 anni ho passato circa 3 mesi nel Mare Arabico e devo ancora trovare un giorno di mare piatto. Neppure l’Indonesia può arrivare a tanto in consistenza. Ogni sentiero porta ad una sorpresa, ogni baia racchiude onde ed ogni giorno per dieci giorni surfiamo spot diversi spostandoci lungo le strade sabbiose della regina di Saba. Come una carovana di mercanti attraversiamo colline ed insistiamo con la Jeep lungo strade che spessso si spengono nel nulla ma è proprio oltre il punto di insabbiamento dell’auto che troviamo l’onda più intensa del viaggio. E’ Brandon ad insistere ed a convincerci a proseguire sotto il sole a picco ed è lui a vedere per primo il gioiello.

Brandon salta in acqua immediatamente e ne esce dopo una ventina di minuti frastornato dalla violenza dell’onda. Con gli occhi sbarrati mi dice: E’ un’onda molto pesante! Di certo uno dei migliori wedge che ho surfato poi si tuffa di nuovo. L’onda è una sinistra col labbro grossissimo e tante sezioni tubanti, rompe ad ogni marea, il vento è sempre da terra e funziona cinque mesi all’anno. Sarà stata la lontananza dal mondo occidentale o i tanti giorni spesi nel deserto o le onde stesse ma a questo punto del viaggio cominciai seriamente a pensare che lo Yemen stesse salvando la mia passione per il surf e la mia stessa vita.

E quando venne il giorno di lasciare il giardino del Profeta queste sensazioni che convulsamente sobbalzavano nella mia mente da tre settimane presero forma e consistenza. Forse non sono come dovrei essere, forse non sono abbastanza cool per essere un surfista, forse tutto veramente dipende da che pantaloncini porti o da che tavola usi. Anche se solo un pazzo può affermare che la vita in un posto così non sia dura, lo Yemen ha un vantaggio rispetto all’occidente: la vita qui è vera. Sulla via di casa l’aereo fa scalo in Bahrain. Entriamo in una di quelle asettiche librerie tipiche degli aeroporti e tutti questi pensieri mi si ripropongono come un ceffone improvviso. Ben in evidenza su una mensola del reparto “internazionali” c’è un libretto intitolato Come essere un Surfista. All’interno una serie di sorridenti professionisti mi spiega come atteggiarmi, come vestire, come parlare, cosa comprare e che luoghi frequentare per essere cool come loro.
Sono veramente questi i profeti del surf? Abbiamo veramente bisogno di tutto questo? Cosa abbiamo fatto allo sport dei Re? Cosa siamo diventati?

Stuart Butler

www. backpacker.it

grazie a stefano politi markovina

Lascia un commento

Archiviato in kimerica, salva il mondo!

“CHI NON SIAMO”

A scanso di equivoci:

Non siamo giornalisti


ovvero scriviamo e pubblichiamo quando e se ci va, in quanto espressione di una nostra necessità e non certo alla spasmodica ricerca della notizia meglio vendibile ad un pubblico da nutrire di informazioni


Non siamo politicanti


ovvero non siamo al servizio del “popolo” nè di alcun partito, consapevoli di come si ottengono privilegi grazie alla messinscena del sistema rappresentativo, sistema in grado di dissimulare un’oligarchia solamente dandole il nome di democrazia

Non siamo marxisti-leninisti-stalinisti


ovvero non abbiamo maestri da seguire o dittature da imporre, abbiamo in proposito solo le nostre esperienze e i nostri cattivi incontri

Non siamo fascisti


ovvero odiamo il loro odore, la loro ignoranza e la loro viltà,tra coperture istituzionali e aggressioni con le lame

Non siamo liberisti


ovvero se dovessimo cercare un dio, di certo mai penseremmo di poterlo trovare al/nel mercato, mai ci inchineremmo alle sue leggi, mai ci faremmo ridurre a risorse umane solo per favorire la circolazione delle merci

Ma soprattutto non siamo tristi


ovvero benchè in lotta contro questo mondo, viviamo lo slancio gioioso che ci porta aldilà delle sue rovine

benzene autoproduzioni

Lascia un commento

Archiviato in kimerica, proteggi l'uomo!, se ti fà stare bene dillo!

“Di Colore”

La ragazza si ferma un attimo, in difficoltà. Il compito che si è assunta è più impegnativo del previsto: raccontare un ccrtometraggio di sessant’anni fa, che è stato mostrato alla classe, e bloccato due minuti prima dalla fine dall’insegnante: una strana storia di una vecchietta che perde il treno, prende un’insalata al self-service e poi si accorge che non ha la forchetta.
“Prende la forchetta, ritorna al suo tavolo, e là, davanti all’insalata, vede un uno di colore..”

“Di colore? di che colore?” la interrompe l’insegnante.
“Di colore !” Fa lei. Ma l’altro: “Che cosa intendi quando dici ‘di colore’?”.
“Nero ! vede uno di colore che mangia con gusto la sua insalata, e”
“Ah, uno nero di pelle… E perché hai detto ‘di colore’?”
“Dico così perché si offendono”
“Chi? chi si offende?”
“Loro!”
“Loro chi? quelli di pelle nera?”
“Si, se li chiamo neri si offendono. Allora dico ‘di colore’; c’è questo vecchio di colore davanti all’insalata, e”
“Non capisco, scusami: ti è successo di dire ‘nero? a una persona che se ne è offesa?”
“Certo!”
“E allora l’hai chiamata di colore e non si è offesa? E quando ti è successo?”
“Non una volta: sempre”
“Fammi capire. Tu hai tanti amici neri di pelle, e”
“No, non amici: conoscenti”

“Si, scusa: conoscenti. Tu conosci tante persone nere di pelle, e ogni volta che li hai chiamati neri, loro si sono offesi. Se invece li chiami ‘di colore’ non si offendono?”
“E’ così!”
“Mi sapresti dire una volta che è successo, con il nome e il cognome della persona che ha preferito essere chiamata ‘di colore’?”
“Ma è successo tante volte”
“Appunto per questo, ti chiedo dettagli su una sola volta. Non ho bisogno per crederti di cento testimoni. Basta che tu mi dica, che so “Una ragazza, si chiama Aicha Mbacke, senegalese, eravamo a basket..”
“Non gioco a basket, ma a pallavolo”
“Bene: questa Aicha, eravamo a pallavolo, ed è successo che le ho detto: Ma voi neri.. E lei mi ha detto: “non mi dire nera; mi offendo!”
“E allora tu le hai detto: Voi di colore.. e a lei è andato bene”
“Ma non ricordo, in questo minuto; un episodio. So solo che succede sempre..
“Sì, hai ragione. E allora non ti chiedo di raccontarmelo per il passato. Facciamo così. Visto che succede sempre, ti capiterà ancora. E allora tu mi manderai un SMS, mi scrivi, per esempio, ‘Amadou Sene, alla stazione, cinque minuti fa?. E io capisco, e me lo segno”
“Perché deve segnarselo?”
“Perché a me non è mai accaduto, ed è un fatto che ritengo improbabile, per cui vale la pena di segnarselo, ora, data, e poi verrò da te e mi racconterai per filo e per segno come è successo”.

Giuseppe faso
http://www.autistici.org/it/

Lascia un commento

Archiviato in se ti fà stare bene dillo!

foto nuove razze

Lascia un commento

Archiviato in nuovo mondo

“siamo tutti interessati al futuro”

Chissà perché gli amanti adorano queste stanze spoglie, fredde come piedi e scelgono finestre con la nebbia fuori. Non ti ricordi neanche in che città siamo. non te lo ricordi. Cercheremo due camere separate, faremo provviste di affetto. per ballare e per pestarci tutto l’inverno. per farti fare degli straordinari straordinari. Chissà perché gli amanti quando cadono le foglie prima si sbattono poi passano però la notte con la luce accesa. non ho fatto in tempo a salutarti, a parlarti a rovinarti tutti i pensieri su di me. e nelle poche scuole pubbliche a riverniciare il futuro. stiamo senza fiato a fissarci. critiche da tutte le parti, pareri sulle canzoni, paragoni paragoni paragoni. la tua vita non è una carriera lavorativa. È venuto giorno fuori da questa stanza. Chissà perché dai polsi degli amanti si ottengono vendemmie sempre generose e molto più abbondanti del normale. Un nome che ti trema dentro. e se stai scomoda. se ci metteremo a tremare come la california. ad urlare alla finestra. e cosa mi esce dalle mani, quante persone hai partorito. Come è diventata la tua vita. quanto ti costo. come ti mantieni. chissà perché gli amanti hanno bisogno di un posto fisso per morire come gli indiani, gli elefanti ed altre razze strane. e con un colpo di reni ti allontani prima tu, per istinto di sopravvivenza o per andare a morire sulla riva. e altre lettere d’amore e di guerra scritte a computer e le frasi con il porto d’armi. chissà perché se guardi in fondo agli occhi degli amanti vedi, scritta in grande, evidenziata in rosso, la parola fine.

le luci della centarle elettrica

Lascia un commento

Archiviato in finalmente la poesia!

ciao.ti aspetto lì..

Lascia un commento

Archiviato in la musica per crescere!

“SIMPLYGIULIA”

Le parole con cui io ti ho lasciato sono le stesse parole con cui tu mi hai lasciato. Sono quelle scontate, banali, di chi non sa che parole usare. Sono le parole che usano tutti. Sono gli Scusa e i Mi dispiace. Sono le parole stupide che speri di non dover dire più. Sono le pause tra una parola e l’altra. Sono i sospesi di un pensiero testardo che non demorde. Sono le parole dette una volta sola oppure sono le parole dette tante volte, perché a volte le parole non bastano. Sono le parole di chi dice «E’ colpa mia». Sono le parole più odiose, sono le parole di una telenovela brasiliana di quarta categoria. Eppure, sono parole tue. E pensare che mi piacevi. Sono le tue ultime parole. Da quando ti ho lasciato, le parole che ho usato sono quelle scontate, banali, di chi non ne vuole parlare. Sono le parole di chi non ha parole. Sono le parole di una canzone ambigua che ascoltavo quando c’eri tu e che ora suona qui al posto tuo. Sono quelle di una scritta ridicola su un pigiama che non indosso apposta. Sono i nomignoli cretini che ci siamo dati io e te e che ho regalato a un amico perché non sapevo più che farmene. Sono le parole cattive per chi non c’entra niente. Sono le parole ammiccanti per chi ha preso il tuo posto. Sono le parole di chi mi chiede Come va. Sono le parole di un discorso in cui grazie a Dio si parla d’altro. Sono fiumi di parole, perché a volte le parole non bastano mai. Da quando mi hai lasciato, le parole che ho usato sono le stesse parole che dicevo a te. Le ho usate ormai centinaia di volte, le ho consumate. E ora, finalmente, sono solo parole. Le parole con cui ti ho lasciato non ci sono perché io non ho usato parole, per non dovermi poi pentire. Sono le parole di chi non ha parole. Sono le parole di chi pensa che le parole non servano. Sono le parole che mi tengo per me. Sono le parole che prima o poi mi pentirò di non aver usato. Erano le parole che avrei voluto dirti. Quelle parole tornano di sera, quando la sera finalmente arriva e, con tutte quelle parole a far compagnia, sembra non voler finire mai.

grazie x l’aggiunta video.
blog simplygiulia

Lascia un commento

Archiviato in finalmente la poesia!, se ti fà stare bene dillo!