“rabbia, dissolutezza e utopia”passano..e mi manchi.

Volevano essere dei bastardi. Il programma era semplice, tutto sommato: il mondo faceva schifo, l’Inghilterra di Sua Maestà era ributtante, i vecchi rocker oramai si erano modificati geneticamente in dei rammolliti, e a loro non rimaneva che una scelta, definitiva, perentoria: fare a pezzi i sogni. I sogni dei benpensanti, certo, i sogni della middleclass stipata nelle casette a schiera, affogata nell’insulsa nebbia inglese e rintronata dall’orgoglio reale britannico, ma anche i sogni di quelle anime belle sopravvissute alla rock revolution degli anni sessanta e settanta, il flower power e i cosiddetto impegno che era diventato star system danaroso e opulento, che si era tramutato nelle gonfie suites orchestrali del progressive rock o nella beffa androgina e da classifica del glam-rock, mentre la discomusic ingolfava le radio. Questo pensavano molti ragazzi inglesi, questo ribolliva nelle periferie industriali ma anche nei salotti color rosa-pudding, questa era la bolla esplosiva del punk dal ’76 in poi. C’erano i mitici Ramones, che venivano dall’America e facevano impazzire i kids che affollavano i club londinesi, tra cui un giovane e rabbioso Joe Strummer. C’erano i Sex Pistols, che insultavano la Regina e cantavano (per così’ dire) “io sono un anarchico, sono un anticristo”. C’era, soprattutto, l’incazzatura endemica dell’Inghilterra operaia e della borghesia annoiata: e c’era la voglia, il bisogno, di riappropriarsi di quanto di eversivo il rock aveva tirato fuori dal proprio Dna nelle origini, riprendersi il colpo pelvico di Elvis, l’allusione sessuale della musica nera, la “pericolosità sociale” dei Rolling Stones, la furia distruttiva dei primi Who e delle garage-band. Il tutto condito da suoni duri, chitarre ruspanti nel loro essere implacabili e sporche, da batterie violente, dall’infelicità che si faceva poesia rabbiosa e che odiava ogni poesia.

Sociologicamente, si può tranquillamente sostenere che il punk fosse una crisi di crescita. Il punk è il rock che, per la prima volta, si mette in discussione. Per la prima volta non si limita a voler buttare per aria i pilastri del sistema, ma anche la stessa mitologia del rock. Epperò, pur nella sua brama di nichilismo, anche il punk è stato un’utopia: e come ogni utopia ha avuto la sua fase di esaltazione e poi le proprie dinamiche di dissoluzione. Che, nella sua forma leggendaria e catartica, culmina nella morte di Sid Vicious, il bassista dei Sex Pistols. E nella sua forma creativa, si tramuta nella new age (americana e inglese): quasi da subito, il punk si spalma su quasi tutta la musica dell’epoca (se si esclude la vecchia generazione, che annaspa per poi riemergere abbastanza trionfalmente ai nostri giorni, i Dylan, i Mc Cartney eccetera), il nuovo modo di scrivere le canzoni impregna il presente: presa diretta e impatto emotivo, tre accordi e basta, rabbia che sgorga dagli abissi dell’animo, ma anche ironia e dissoluzione…a New York c’erano i Talking Heads e Patti Smith, a Los Angeles i Dead Kennedys, a Londra c’erano i Clash. Persino i Police, pulitini com’erano, sorgono dalla bomba innescata dai Pistols. Nessuno ci può girare intorno, e ognuno ci mette del proprio. E il rock ricomincia a correre: si riscopre il funk, il rock’n’roll, l’elettronica, si sposa il raggae, si torna a tuffarsi negli anfratti più bui della psiche collettiva e individuale (il cupio dissolvi del movimento dark, la disperazione dei Joy Division).


Oggi, anche quella è un’epopea passata. E’ storia. Il rock, anche grazie al punk, ha imparato a vivere e rivivere le proprie stagioni metaboliche. Periodiche, si torna alle origini, con nuovi sapori, nuovi odori, nuovi sogni di rivolta e nuovi caduti sulla spesso dolorosa via del rock (ieri Cobain, oggi Strummer). Ogni volta sembra che si ricominci da capo: gli U2, di poco più giovani, hanno usato i Clash come proprio libro di testo, in tempi più recenti i figli di Strummer & co sono stati i politicizzatissimi Rage Against the Machine, i Manic Street Preachers, a loro modo i Mano Negra di Manu Chao. Oggi i ragazzi che impazziscono per il punk-ska e rollers postmoderni come i Libertines s’inchinano alla memoria di Joe Strummer. Ben sapendo che anche quella del punk – che i Clash avevano contribuito a inventare e, contemporaneamente, a trascendere – in fondo, era un utopia, perché distinguere i sogni e un’utopia. Nobile, soprattutto quando sulle macerie continui a costruire, come hanno fatto i Clash.


(P.S.: “La madre della dissolutezza non è la gioia, bensì la mancanza di gioia”, diceva Nietzsche (che ritmo, però, la dissolutezza).

Roberto Brunelli – L’UNITA’ – 23/12/2002

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“gratis come la birra”

Quando ero all’università ho frequentato due corsi introduttivi di economia: microeconomia e macroeconomia. Macroeconomia era piena di teorie come “la disoccupazione causa l’inflazione” che hanno poco a che fare con la realtà. La microeconomia invece era bella e utile: era piena di interessanti concetti sulla relazione fra domanda ed offerta, che funzionano veramente. Per esempio insegnavano che se avete un concorrente che abbassa i prezzi, la richiesta per il vostro prodotto scende finché non abbassate anche voi i prezzi come il vostro concorrente.

Nel capitolo di oggi mostrerò come uno di questi concetti spiega molte cose su alcune ben note società di computer. Riflettendoci sopra ho notato alcuni aspetti interessanti sul software open source: la maggior parte delle società che spendono un sacco di soldi per sviluppare software open source lo fanno perché è una buona strategia di business, non perché improvvisamente hanno smesso di credere nel capitalismo per convertirsi ed innamorarsi del concetto libertà di parola.

Nel mercato ogni prodotto ha un sostituto ed un complemento. Un sostituto è un prodotto alternativo che puoi comprare nel caso in cui il primo sia troppo costoso. La carne di pollo è un sostituto per quella di manzo. Un allevatore di polli venderà di più quando il prezzo della carne di manzo cresce, perché le persone preferiranno comprare il pollo.

Un complementare è un prodotto che normalmente viene acquistato insieme ad un altro. Benzina ed automobili sono complementari. L’hardware dei computer è un classico complementare dei sistemi operativi; le babysitter sono complementari ad una cena fuori. In una piccola città quando i 5 ristoranti locali fanno un’offerta ‘paghi 1 mangi in 2’ per il giorno di San Valentino, le babysitter raddoppiano il loro prezzo. (Beh, altre babysitter ancora più giovane verranno assunte prima del solito.)

A parità di altri fattori, la domanda per un prodotto aumenta quando il prezzo del suo complementare diminuisce.

Fatemelo ripetere, nel caso vi siate appisolati nel frattempo, perché è un concetto importante: la domanda per un prodotto aumenta quando il prezzo del suo complementare diminuisce. Per esempio: se scendono i prezzi dei voli per Miami, la richiesta per gli alberghi a Miami aumenta – perché più persone voleranno a Miami e vorranno una camera in albergo. Quando i computer diventano più convenienti più persone li comprano ed avranno bisogno del sistema operativo; dunque aumenta la richiesta per i sistemi operativi ed il loro prezzo sale.

A questo punto è piuttosto comune confondersi le idee e dire: “eh sì! Ma Linux è GRATIS!”, OK. Prima di tutto quando un economista parla di prezzo prende in considerazione il costo totale, che comprende il costo di beni non materiali come, per esempio, il tempo necessario per installarlo, fare nuovi corsi di formazione ed adattare i processi già esistenti; tutte quelle cose che ci piace chiamare “total cost of ownership“.

In secondo luogo, usando l’altra famosa argomentazione, free-as-in-beer (“gratis” come lo sarebbe la birra), i sostenitori dell’open source cercano di convincersi di non essere soggetti alle regole dell’economia: possono moltiplicare il costo quanto vogliono tanto sarà sempre zero. Ecco un esempio. Quando Slashdot ha chiesto al Moshe Bar, sviluppatore di Linux, se in futuro il kernel sarebbe stato compatibile con tutti i driver esistenti egli ha risposto che non ce n’era la necessità: “il software proprietario ha un costo di 50-200 dollari per linea di codice debuggato. Questo costo non si applica al software open source.” Moshe afferma quindi che non c’è nessun problema nel riscrivere tutti i driver per ogni nuova versione del kernel, perché il costo per riscrivere anche quelli già esistenti è zero. Questo è completamente sbagliato: egli sostiene che impiegare una certa quantità di tempo, minima, di programmazione per rendere il nuovo kernel compatibile con la versione precedente, oppure spendere un sacco di tempo per riscrivere tutti i driver, abbia lo stesso costo perché in entrambi i casi la quantità di tempo impiegata è moltiplicata per il “costo” di programmazione, che egli crede essere zero.

Questo è a prima vista un ragionamento errato. Le migliaia o milioni di ore di programmazione necessarie per correggere ogni driver di periferica prima o poi qualcuno le dovrà pagare. E finché si procede in questo modo, Linux sarà ancora una volta in svantaggio rispetto al mercato perché non può supportare tutto l’hardware esistente. Non sarebbe meglio usare tutto questa fatica a “costo zero” per sviluppare uno Gnome migliore? O per supportare il nuovo hardware?

Il codice debuggato, che sia proprietario o open source, NON è gratis: anche se non lo paghi in contanti ha dei costi di opportunità mancate e di tempo. Non sono infiniti i volontari capaci disponibili per sviluppare open source. Ogni progetto open source è in competizione con altri progetti open source nel condividere le stesse risorse e solo i progetti più accattivanti trovano più volontari disponibili di quelli necessari. Per riassumere: non mi impressionano quelli che cercano di dimostrare concetti di economia selvaggia come il software cosiddetto free-as-in-beer (“gratis” come lo sarebbe la birra), perché penso che semplicemente sbaglino dividendo per zero da qualche parte.

L’open source non è esente dalle leggi di gravità o di economia. Abbiamo visto Eazel, ArsDigita, La Ditta Precedentemente Nota Come VA Linux e molti altri tentativi. Ma qualcosa sta ancora andando avanti, qualcosa che solo pochi nel mondo dell’open source realmente capiscono: un sacco di grandi società quotate in borsa, con la responsabilità di massimizzare il valore delle loro quote verso i loro azionisti, stanno investendo ingenti quantità di denaro per supportare il software open source; solitamente pagando grandi team di sviluppatori per lavorarci sopra. E questo si spiega facilmente se riprendiamo il principio dei prodotti complementari.

Ancora una volta: la domanda per un prodotto aumenta quando il prezzo del suo complementare diminuisce. In generale, un interesse strategico per una società è fare in modo che il prezzo dei prodotti complementari ai loro sia il più basso possibile. Il più basso costo sostenibile teoricamente sarebbe il cosiddetto prezzo calmierato — il prezzo che si ottiene quando vi sono un sacco di concorrenti che offrono prodotti uniformi ed indistinguibili, prodotti che diventano una commodity. Quindi:

Le società intelligenti cercano di rendere commodity i prodotti complementari ai loro.            


Se riuscite a far questo, la richiesta per il vostro prodotto aumenta e potete farlo pagare sempre di più.

Quando la IBM ha progettato l’architettura del PC, ha usato componenti standard anziché proprietari, e ha accuratamente documentato tutte le interfacce fra i componenti nel (rivoluzionario) IBM-PC Technical Reference Manual. Perché? Affinché altri costruttori prendessero parte al gioco: qualunque cosa soddisfi le specifiche dell’interfaccia può essere utilizzate nei PC. Lo scopo di IBM era di rendere una commodity i componenti, che sono i complementari dei PC, e, decisamente, ci sono riusciti: nel giro di poco tempo sono spuntate come funghi società che offrono memorie, hard disk, schede video, stampanti ecc. Componenti a buon mercato comporta maggiore richiesta di PC.

Quando IBM ha ottenuto in licenza da Microsoft il sistema operativo MS-DOS, Microsoft ha fatto attenzione a non dare una licenza esclusiva. Questo ha fatto si che Microsoft potesse dare in licenza lo stesso sistema anche a Compaq ed altri costruttori che avevano copiato, sia chiaro legalmente, i PC da IBM, usando la documentazione di IBM stessa. Lo scopo di Microsoft era di fare dei PC una commodity. Molto presto il PC in sé è divenuto una commodity, con prezzi sempre più bassi, prestazione sempre in crescita e margini talmente ridotti che è diventato estremamente difficile farci del profitto. Il prezzo basso, ovviamente, fa aumentare la richiesta. L’aumento della richiesta per i PC comporta l’aumento della richiesta anche per i loro complementari, MS-DOS. A parità di altri fattori, maggiore è la richiesta per un prodotto, più soldi riesci a farci. Ecco perché Bill Gates ora potrebbe comprare la Svezia e voi no.

In questo periodo Microsoft ci sta provando un’altra volta con Xbox: questa nuova console fa uso di componenti per PC, già commodity, anziché componenti su misura. La teoria (spiegata in questo libro) era che l’hardware commodity diventa ogni anno più a buon mercato, cosicché il prezzo di Xbox cala. Sfortunatamente sembra che la teoria stia fallendo: evidentemente i prezzi dell’hardware sono già stati spremuti fino all’osso, il costo di Xbox quindi non scende così in fretta come invece avrebbe fatto piacere a Microsoft. Un altro aspetto della strategia di Xbox era l’uso di DirectX, una libreria grafica che permette di scrivere programmi che funzionano su ogni tipo di chip video. Lo scopo in questo caso è di fare dei chip video una commodity, per minimizzarne il prezzo, in modo da poter vendere più videogiochi, che è un prodotto con cui veramente si fanno i soldi. E perché non sono i produttori di chip video che cercano in qualche modo di rendere i giochi una commodity? Questo è assai più difficile. Se il gioco Halo sta vendendo alla grande, è perché non c’è un vero sostituto. Se andate al cinema per vedere “Star Wars II – l’attacco dei cloni” non sarete altrettanto soddisfatti se al suo posto vi fanno vedere un film di Woody Allen. Saranno entrambi grandi film, ma non sono fra loro interscambiabili. A questo punto ditemi voi: preferireste essere un casa produttrice di videogiochi o un venditore di chip video?

Fate dei prodotti complementari ai vostri una commodity.

Capire questa strategia ci fa andare molto, molto avanti nello spiegare il perché molte società stanno investendo grandi capitali nell’open source. Andiamo quindi nel dettaglio e vediamo alcuni esempi.

Esempio: IBM spende miliardi per sviluppare software open source

Luogo comune: lo fanno perché Lou Gerstner ha letto il manifesto della GNU, ha visto la luce e si è convertito contro il capitalismo.

La realtà: lo fanno perché IBM sta diventando una società di consulenza informatica. La consulenza informatica è complementare al software aziendale. Quindi IBM ha bisogno di rendere il software aziendale una commodity e il miglior modo di farlo è supportando l’open source. Nota bene: il loro settore consulenza sta riscuotendo un grande successo grazie a questa strategia.

Esempio: Netscape ha distribuito il suo browser come open source.

Luogo comune: lo stanno facendo per avere gratis il contributo di programmatori dagli internet cafè in Nuova Zelanda.

La realtà: lo fanno per rendere i browser una commodity.

Questa è stata la strategia di Netscape fin dall’inizio. Guardate il primissimo comunicato stampa di Netscape: il browser è “freeware”. Netscape ha regalato il suo broswer per poter fare soldi sul lato server. Browser e server sono due tipici prodotti fra loro complementari. Più è basso il prezzo del browser, più server si vendono. Non è mai stato così vero come nell’ottobre del 1994. (Fu davvero una sorpresa per Netscape quando MCI è arrivata ed ha messo sul tavolo così tanti soldi che persino loro hanno capito che potevano fare soldi anche con il browser. E questo non era previsto nel piano di gestione.)

Quando Netscape ha rilasciato Mozilla come software open source, lo ha fatto perché pensavano di abbassare i costi di sviluppo del browser; potevano quindi ottenere i vantaggi di una commodity ad un prezzo più basso.

Più avanti AOL/Time Warner ha acquisito Netscape. Il software dei server, che si supponeva beneficiasse della commodity browser, non stava andando cosí bene e fu scaricato. Ora: perché AOL/Time Warner dovrebbe continuare ad investire nell’open source?

AOL/Time Warner è una società di intrattenimento. Le società di intrattenimento sono complementari ad ogni tipo di piattaforma per distribuzione di intrattenimento, compresi i browser. L’interesse di questo impero è di fare delle piattaforme per la distribuzione dell’intrattenimento – i browser – una commodity, per le quali nessuno può chiedere soldi.

Il mio ragionamento è un po’ contorto per il fatto che Internet Explorer è di fatto free-as-in-beer (“gratis” come lo sarebbe la birra). Anche Microsoft voleva fare dei browser una commodity per poter vendere sistemi operativi per PC e server. Neoplanet, AOL, e Juno hanno usato questi componenti per creare i loro browser web. Visto che IE è gratis, quale motivo ha Netscape di fare un browser ancora più “gratis”? E’ una mossa preventiva: hanno bisogno di prevenire il monopolio di Microsoft nei browser web, anche se gratis, perché ciò permetterebbe a Microsoft di aumentare i prezzi del browser in altri modi; per esempio aumentando il prezzo di Windows.

(Il mio ragionamento è ora ancor più debole perché è piuttosto evidente che Netscape ai tempi di Backsdale non aveva idea di quello che stava facendo. Una spiegazione più verosimile è che i più alti dirigenti fossero tecnicamente incapaci, e non avevano altra scelta che assecondare ciò che di volta in volta proponevano gli sviluppatori. Gli sviluppatori erano hacker, non economisti, e solo accidentalmente facevano proposte utili per la loro strategia… Ma lasciamo loro il beneficio del dubbio.)

Esempio: Transmeta assume Linus e lo paga per smanettare su Linux.

Luogo comune: l’hanno fatto per avere un po’ di pubblicità. Avreste mai sentito parlare di Transmeta altrimenti?

La realtà: Transmeta è una società che produce CPU. Il complemento naturale della CPU è il sistema operativo. Transmeta ha bisogno che il sistema operativo sia una commodity.

Esempio: Sun e HP pagano Ximian per smanettare su Gnome.

Luogo comune: Sun e HP supportano il free software perché preferiscono i Bazar alle Cattedrali.

La realtà: Sun e HP sono società che producono hardware: fanno scatole chiuse. Per fare soldi con i PC hanno bisogno che i sistemi operativi a finestre, che sono un complemento del computer, siano una commodity. Perché non usano i soldi che stanno dando alla Ximian per sviluppare invece un sistema a finestre proprietario? Ci hanno provato (Sun aveva NeWS ed HP aveva New Wave), ma Sun e HP sono nel profondo vere e proprie società di hardware, la loro esperienza nel software è primitiva ed il sistema operativo per loro deve essere una commodity a basso costo, e non un elemento proprietario di vantaggio su cui dover spendere dei soldi. Così hanno stipendiato quei cari ragazzi alla Ximian per realizzarlo per lo stesso motivo per cui Sun ha comprato Star Office e l’ha reso open source: per rendere il software una commodity e fare i soldi con l’hardware.

Esempio: Sun sviluppa Java; con il nuovo sistema “Bytecode” scrivi un codice che gira ovunque.

L’idea del bytecode non è nuova — i programmatori provano da sempre a fare in modo che il loro codice giri su quante più architetture hardware possibili. (Ecco come potete rendere una commodity il prodotto complementare!). Per anni Microsoft ha avuto il suo compilatore p-code e una interfaccia a finestre trasferibile su diverse architetture che permette di avere Excel su Macintosh, Windows ed OS/2, ed indifferentemente su chip Motorola, INTEL, Alpha, MIPS e PowerPC. Quark ha una interfaccia che fa funzionare codice scritto per Macintosh su Windows. Il linguaggio di programmazione C si può definire un linguaggio assembler indipendente dall’hardware. Per uno sviluppatore questa non è proprio una nuova idea.

Se potete far girare il vostro software ovunque, l’hardware può essere ancora di più una commodity. Appena i prezzi dell’hardware scendono, il mercato si espande facendo aumentare la domanda per il software (e lasciando in tasca ai clienti più soldi da spendere nel software che a questo punto può anche essere più costoso).

L’entusiasmo che Sun esprime per WORA è, beh, strano, perché Sun è una società che fa hardware: rendere l’hardware una commodity è l’ultima cosa che dovrebbe fare.

Oooooooooooooooooooooops!

Sun è il cavallo impazzito del mercato dei computer; incapace di vedere oltre la loro furiosa paura e ripugnanza per Microsoft, adotta strategie basate più sulla rabbia che sul suo interesse. Le due strategie di Sun sono (a) rendere il software una commodity promuovendo e sviluppando free software (Star Office, Linux, Apache, Gnome, ecc.), e (b) rendere l’hardware una commodity promovendo Java, con l’architettura bytecode e WORA. Ok, Sun, nel vecchio gioco delle sedie, quando finisce la musica su quale sedia ti siedi? Senza un prodotto proprietario, che sia software o hardware, devi prendere i margini che ti dà una commodity, che a malapena coprono i costi di economiche fabbriche in Gauadalajara, non dei tuoi lussuosi uffici nella Silicon Valley.

“Ma Joel!” – sento un grillo nelle orecchie- “Sun sta cercando di rendere una commodity i sistemi operativi, esattamente come Transmeta, e non l’hardware.” Forse, ma il fatto che il bytecode Java di fatto rende anche l’hardware una commodity è un danno collaterale piuttosto significativo da sostenere.

Un interessante corollario a tutto questo discorso è il fatto che tutti questi esempi mostrano come sia facile per il sofware rendere l’hardware una commodity (devi solo aggiungere un livello di astrazione, come HAL di Windows NT, che è un minuscolo pezzo di codice), ma è incredibilmente difficile per l’hardware fare del software una commodity. Il software non è interscambiabile, come sta imparando il gruppo marketing di StarOffice: anche se il prezzo è zero, il costo per passare da Microsoft Office a StarOffice non è zero. Finché il costo del passaggio non è zero il software per i PC non sarà mai una vera commodity. Anche la minima differenza può rendere una pena passare da un software all’altro. Nonostante il fatto che Mozilla abbia tutte le prestazioni che voglio e che amerei utilizzarlo foss’altro per liberarmi di quelle insistenti finestre di pop-up di pubblicità sui giochi, sono troppo abituato a premere Alt+D per andare alla barra dell’indirizzo. Allora fatemi causa. Una sola minuscola differenza e perdi lo status di commodity. Invece ho estratto hard disk da un PC IBM e li ho messi in un PC Dell e, bam!, il sistema si accende e funziona come se fosse ancora sul vecchio computer.

Amos Michelson, il CEO di Creo, mi ha detto che ogni dipendente della sua ditta deve andare ad un corso che lui chiama “il pensiero economico.” Idea grandiosa! Anche semplici concetti di microeconomia danno una marcia in più per comprendere alcuni fondamentali mutamenti del giorno d’oggi.

Traduzione dell’articolo originale inglese dal titolo Strategy Letter V

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Joel Spolsky è il fondatore della Fog Creek Software, una piccola ditta di software a New York. Laureato alla Università di Yale, ha lavorato come programmatore e manager presso Microsoft, Viacom e Juno.

Di Joel Spolsky
Tradotto da Giacomo Coppo
Redatto da Cam Fordyce, Marco Menardi

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poteri

Le condizioni che, negli ultimi anni, hanno permesso al verbo e al credo revisionista di uscire dai circoli ristretti in cui era costretto, l’affermarsi di una sorta di relativismo generalizzato:

“tutti i punti di vista si equivalgono, non c’è più criterio che permetta di distinguere chiaramente il vero dal falso, il reale dall’illusorio, il bene dal male; a ciascuno forgiarsi la sua opinione, e d’altronde tutte le opinioni sono accettabili quando sono sincere. Questa assenza di criteri è del resto celebrata dall’ideologia postmodernista come una liberazione, come l’accesso a un mondo in cui l’individuo può moltiplicare i punti di vista, simultaneamente o successivamente: intrecciarli senza curarsi della loro coerenza, o praticare una sorta di nomadismo identitario, cambiando di ‘visione del mondo’ come di camicia”[1].

Le reti telematiche sono diventate uno dei luoghi privilegiati di riproduzione e sperimentazione di questo relativismo, popolarizzato da riviste come Wired: “All’improvviso, la tecnologia ci ha dato poteri che ci permettono di manipolare non solo la realtà esterna, il mondo che ci circonda, ma anche e soprattutto noi stessi. Potete diventare tutto quello che volete essere”.[2]

Per questo sarebbe sbrigativo e troppo facile liquidare l’utilizzo delle reti da parte del revisionismo telepragmatico come un semplice epifenomeno. Non si tratta di un effetto collaterale, ma di una reale deriva del nomadismo identitario.

incidenze a etichette

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“MICHAEL” E TORNATO,IL “COMMENDATORE”.. RIDE”

Adesso non ricordo poi tanto bene.. sentivamo che il mondiale era vicino, molto vicino.. Volevamo festeggiarlo nella capitale del”rosso” maranello. Erano viaggi lunghissimi orzinuovi-maranello, lì proprio lì doveva succedere.. Il titolo mancava da tanti anni, gonne, minigonne, incidenti. l’ultimo lo aveva portato a casa un sudafricano,
l’impressione era una macchina a posto, veloce.. lui regolare. Non come quel canadese che mi faceva battere il cuore, tanto veloce, poco regolare..Come la mia vita di quel tempo, poca scuola, tanta musica, sogni, autostop. Ricordo un fine settimana una macchina che si alza in volo.. Da lì solo macchine nere, domeniche a guardare fuori dalla vetrata del bar, se si riusciva a scorgere un qualcosa di vivo nella profonda pianura padana. Sono ancora in viaggio, la meta è sempre la solita, parcheggio della galleria del vento, maxischermo. ..Non viaggiavo tutta la notte per sedermi davanti ad una tv. Lì tedeschi, francesi, persino giapponesi, Stare lì con un paese dentro di te, e sognare le mitiche campane che suonano. Se non ti basta non sei dei nostri.
“la rossa”. quando gira non è mai un giorno qualunque, la senti, suona, ti chiama. In un attimo sei a fiorano.. Mio nipote luca a due anni riusciva ad imitare il suono della 200 Proprio la macchina che ci ha riportato in sacrestia.Televisioni da tutto il mondo, radio, giornalisti, tutti ad intervistare il prete, che naturalmente non era più il vecchio prelato amico del”commendatore.”
Che importa, se non si possono intervistare le campane..il titolo non arrivava più, un anno il figlio di gil, battaglie con mika, sfiga. cosa importa se abbiamo aspettato tanto tempo, le cose da ricordare sono quelle che valgono, lo spazio da quando è arrivato, fino al giorno che ha detto basta. lì dentro c’è la nostra vita, i nostri ricordi, giornate di gran premio con gorecky, ed una rossa che gira sola, sempre più sola, e veloce, tanto veloce. bentornato michael mi sento più giovane, e ho le lacrime agli occhi.

cesare mazzuccato

giovedì 29 luglio 2009

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cosa abbiamo fatto allo sport dei rè?


Stuart Butler l’amore per il viaggio lo ha scoperto per caso. Da piccolo, sulla costa francese, i suoi genitori gli raccontavano dei loro viaggi hippy insegnandogli a rispettare la natura e ad amare gli animali. Da questo passione per la natura trasmessagli è nato il desiderio di conoscere ed esplorare posti nuovi nel mondo. Tutto è iniziato facendo l’autostop sulla costa francese con sottobraccio la tavola da surf e ritrovandosi in un viaggio fantastico con pochi soldi in tasca che lo ha portato in Marocco e poi ancor più giù. Da quel viaggio Stuart ha poi girato il mondo laddove c’erano onde da surfare: dall’Etiopia al Pakistan, dall’India alla Mauritania. Curioso per natura, avverso alla scena troppo colorata del surf spettacolo, desideroso di entrare in diretto contatto con le realtà locali, spesso fatte di villaggi sperduti, luoghi impervi e per nulla turistici, Stuart Butler oggi scrive guide di surf, gira video dai suoi surf trip in giro per il mondo e si conferma essere un grande viaggiatore alla scoperta di onde lontane che attendono di essere surfate in santa pace.

Sono tornato, sono di nuovo qui, ma nulla tornerà più come prima. La mia vita ha preso una strada che ancora non conosco.
Sono appena tornato da un luogo in cui la vita di un uomo costa quanto una pallottola di Kalashnikov. Nel mondo occidentale mi sento sicuro. Qui la mia vita vale più di una pallottola ma sono anche disilluso e stanco. Nel giardino del Profeta non ero al sicuro ma ero vivo. Ed è stato tra le sue dune che sentimenti e pensieri da tempo latenti nella mia mente si sono cristallizzati in una solida convinzione ed in un sentimento potente come l’Odio. Odio quello che abbiamo fatto al surf e all’oceano e provo terrore verso il futuro.

Tavola e kalashnikov!

Nel giardino del Profeta ho pensato l’impensabile: mi sono accorto di odiare il mondo del surf e la sua immagine. Di odiare tutto quello che il surf rappresenta. Odio Hossegor, Newquay e la California, odio chi sta tentando di propinarci oggetti inutili utilizzando l’immagine “cool” del surf, odio il fatto di dover essere un clone, uguale a tutti gli altri per dimostrare al resto del mondo di essere diverso. Ma più di tutti odio gli interessi milionari che hanno permesso ed incoraggiato tutto questo. Il modo in cui questa consapevolezza ha preso forma in me è strano in quanto è avvenuto durante il surf trip più puro della mia vita e surfando onde che tutti i surfisti sognano. Ma forse proprio questo è stato il punto di svolta. Naturalmente io adoro surfare. Attorno a questo semplice gesto ha ruotato tutta la mia vita. La mia è in verità una fuga. L’esigenza di staccare col mondo degli sponsor, dell’Aloha e dei festival a tema e di rifugiarmi in un luogo selvaggio, pristino, un luogo dove ti aspetti di trovare idee, visioni profetiche, non surf-shop: un luogo come lo Yemen.

Lo Yemen è situato all’estremità Sud della Penisola Arabica, e confina con stati “tranquilli” come Oman, Arabia Saudita e, oltre il Golfo di Aden, Etiopia e Somalia. Lo Yemen è sempre stato un paese libero. Dalle oasi di Marib un tempo passavano le piste carovaniere, controllate dalla famosa e bellissima Bilqis, amante del re Salomone e conosciuta a i più come Regina di Saba. Sotto la sua autorità lunghe file di cammelli trasportavano preziose mercanzie attraverso il deserto fino alle coste del Mediterraneo. E’ dallo Yemen che provenivano l’incenso e la mirra portati dai Magi in dono a Betlemme. Il nostro primo incontro col più mistico dei paesi islamici avviene nella capitale. Sana è una città fin troppo dolce: non esiste un luogo tanto romantico e vitale in tutto l’Islam. Da Sana alla costa la strada attraversa alte montagne ed infinite dune di un tenue rosa pesca.

Non so cosa abbia spinto Brandon, Toby e me ad affrontare cinque giorni di deserto per cercare onde in Yemen. Sicuramente non siamo partiti con l’idea di trovare un profeta e, men che meno, ci aspettavamo un luogo tanto puro e bello da far vacillare tutte le nostre convinzioni sul surf. Sapevamo però che in Yemen anche l’impossibile può accadere e l’irreale si intreccia quotidianamente col mondano. Questa dicotomia si manifesta appena fuori Sana al checkpoint militare. Da questa parte tutto sembra calmo e normale ma mentre attraversiamo vedo i soldati diventar piccoli e sparire nello specchietto retrovisore e mi accorgo che è dall’altra parte del filo spinato che comincia il mondo vero. Da sotto i sedili della Jeep i nostri accompagnatori estraggono fucili e granate. Ad ogni villaggio il nostro bagaglio di armi cresce. La popolazione yemenita è in assoluto la più armata al mondo con 60 milioni di armi da fuoco in mano ad una popolazione di appena 18 milioni. Tutto quello che vuoi da un coltello ad una testata nucleare può essere acquistato nei tanti mercati d’armi che attraversiamo. I Kalashnikov costano 300 Dollari e se non ti basta puoi sbizzarrirti tra bombe a mano, mitragliatrici, lanciarazzi e fucili anticarro.

grattacieli di fango

Oltrepassato il checkpoint di Sana la vita di tutti ruota attorno all’onore e all’orgoglio tribale. La tribù è tutto per uno Yemenita visto che il volere delle tribù ha la priorità persino sulle leggi dello stato. La vita tribale è orgogliosamente tradizionalista e rifiuta ogni autorità esterna: la legge che regna è quella di “occhio per occhio”. In Yemen le faide tra famiglie durano per generazioni e si trasformano spesso in vere e proprie battaglie con decine di morti da entrambe le parti. Dopo la tribù e la famiglia viene la religione che qui è vissuta in maniera molto tradizionale.
Niente accade senza la volontà di Dio, recita il Corano e pare proprio che questo Dio non voglia far precipitare la sua gente nel turbine della vita moderna come la intendiamo noi. Siamo sulla prima linea della “Lotta al Terrore” di Bush e ad ogni checkpoint siamo invitati a mostrare i permessi di transito, tra carri armati e cannoni. La nostra presenza viene anticipata ogni volta via radio al checkpoint successivo il quale ha il compito di venirci a cercare in caso non arrivassimo nel tempo stabilito. Il pericolo di essere rapiti è reale nel deserto.

Tra un presidio militare e l’altro siamo in mano a simpatizzanti di Al Qaeda e questo pensiero non ci rassicura. Otto anni fa nel mio primo viaggio in Yemen, mi fu intimato di andarmene immediatamente da Marib o sarei stato rapito in capo a pochi minuti. L’odio verso l’occidente ed i rapimenti da allora sono addirittura cresciuti. Pochi anni fa un membro del parlamento arrivò a sostenere che essere rapiti era un buon modo per conoscere l’ospitalità e le tradizioni delle tribù. Anche il grottesco è reale in Yemen.
Il Profeta Maometto descrisse gli Yemeniti come il popolo più amabile e gentile del mondo. Nonostante l’apparenza minacciosa questo è ancora vero oggi, ce ne danno una dimostrazione i nostri accompagnatori che nonostante ci costringano a dormire armati, si dimostrano gentilissimi e disponibili a fare due chiacchiere. Il capo del nostro gruppo e la guida.

Mohammed ha abitato alcuni anni negli Stati Uniti prima di accorgersi che non era un buon posto per mettere su famiglia. Allora è tornato nel suo villaggio natale tra le sue amate montagne portandosi in valigia alcuni fucili come souvenir. Una volta tornato a casa è rimasto invischiato in ogni sorta di avventure tribali non ultima uno scontro armato che gli ha fatto perdere un fratello ed uccidere due mèmbri della fazione opposta. Dopo un assedio di sei mesi ed infiniti negoziati tra i due villaggi, a Mohammed venne risparmiata la pena capitale ma passo due anni in carcere per bilanciare l’offesa inflitta. E Mohammed non è nulla se paragonato alle timide guardie Beduine che ci accompagnano: un team di padre e figlio onginari del deserto attorno a Marib. Sono uomini duri silenziosi anche per via del lutto che portano per i famigliari caduti appena quindici giorni fa negli scontri.

Nel loro paese natale i bambini maneggiano armi ancor prima di camminare. Oggi i due si guadagnano ufficialmente da vivere guidando una Jeep senza targa nel deserto, proteggendo i viaggiatori dalle altre tribù e spostando illegalmente armi tra Arabia Saudita, Oman, Damasco e Baghdad. Anche loro come Mohammed hanno divertenti storie da raccontare. Ali, il padre, mentre mi mostra tre fori di pallottola, mi racconta di quando la sua Jeep venne colpita da un razzo. I due non ci nascondono che, se incontrassimo membri di una famiglia rivale, si verrebbe subito allo scontro armato indipendentemente dalla nostra presenza. Il primo incontro con l’oceano dopo un viaggio di cinque giorni è sempre pieno di aspettativa e tensione. Ne sarà valsa la pena? Troveremo la nostra Kirra dietro il promontorio? In vero dopo tanto deserto, splendide oasi e grattacieli di fango il viaggio si è trasformato di per sé in ricompensa. Il giardino del Profeta però ha in serbo molte altre sorprese, non ultime le onde.

Sbuchiamo dal deserto vicino al confine con l’Oman ed è ai piedi di montagne fiorite che riceviamo il regalo del Profeta. I monti si sciolgono in mare creando una serie infinita di baie. La nostra prima visione del blu è accompagnata da picchi altezza-testa che frangono a perdita d’occhio su reef e spiagge completamente deserte. Le mareggiate che generano queste onde provengono dall’intensa bassa pressione stagionalmente presente nel Golfo Arabico, un fenomeno legato al sistema monsonico indiano e quindi affidabilissimo. Il potenziale in onde di quest’area è tale da far impallidire le coste atlantiche europee ed anche molte surf-mecca di fama mondiale.

Durante le tre settimane spese in Yeman abbiamo surfato ogni singolo giorno onde mai sotto il metro. Negli ultimi 3 anni ho passato circa 3 mesi nel Mare Arabico e devo ancora trovare un giorno di mare piatto. Neppure l’Indonesia può arrivare a tanto in consistenza. Ogni sentiero porta ad una sorpresa, ogni baia racchiude onde ed ogni giorno per dieci giorni surfiamo spot diversi spostandoci lungo le strade sabbiose della regina di Saba. Come una carovana di mercanti attraversiamo colline ed insistiamo con la Jeep lungo strade che spessso si spengono nel nulla ma è proprio oltre il punto di insabbiamento dell’auto che troviamo l’onda più intensa del viaggio. E’ Brandon ad insistere ed a convincerci a proseguire sotto il sole a picco ed è lui a vedere per primo il gioiello.

Brandon salta in acqua immediatamente e ne esce dopo una ventina di minuti frastornato dalla violenza dell’onda. Con gli occhi sbarrati mi dice: E’ un’onda molto pesante! Di certo uno dei migliori wedge che ho surfato poi si tuffa di nuovo. L’onda è una sinistra col labbro grossissimo e tante sezioni tubanti, rompe ad ogni marea, il vento è sempre da terra e funziona cinque mesi all’anno. Sarà stata la lontananza dal mondo occidentale o i tanti giorni spesi nel deserto o le onde stesse ma a questo punto del viaggio cominciai seriamente a pensare che lo Yemen stesse salvando la mia passione per il surf e la mia stessa vita.

E quando venne il giorno di lasciare il giardino del Profeta queste sensazioni che convulsamente sobbalzavano nella mia mente da tre settimane presero forma e consistenza. Forse non sono come dovrei essere, forse non sono abbastanza cool per essere un surfista, forse tutto veramente dipende da che pantaloncini porti o da che tavola usi. Anche se solo un pazzo può affermare che la vita in un posto così non sia dura, lo Yemen ha un vantaggio rispetto all’occidente: la vita qui è vera. Sulla via di casa l’aereo fa scalo in Bahrain. Entriamo in una di quelle asettiche librerie tipiche degli aeroporti e tutti questi pensieri mi si ripropongono come un ceffone improvviso. Ben in evidenza su una mensola del reparto “internazionali” c’è un libretto intitolato Come essere un Surfista. All’interno una serie di sorridenti professionisti mi spiega come atteggiarmi, come vestire, come parlare, cosa comprare e che luoghi frequentare per essere cool come loro.
Sono veramente questi i profeti del surf? Abbiamo veramente bisogno di tutto questo? Cosa abbiamo fatto allo sport dei Re? Cosa siamo diventati?

Stuart Butler

www. backpacker.it

grazie a stefano politi markovina

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“sembra un secolo”..

Il capitalismo è un’ingiusta ripartizione della ricchezza. Il comunismo è una giusta distribuzione della miseria .

(Winston Churchill)

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Di una città non apprezzi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda. — Italo Calvino



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SCAMBIAVANO GLI OCCHI PER CAPIRE PIU’ IL MONDO

Pochi l hanno capito, molti l hanno deriso
quel poeta ragazzo, quanti l hanno ucciso
quanti critici sciocchi, poeti da salotto
quanti illustri colleghi gli cancellarono il volto

Iero ho sognato Dino Campana
col fantasma di Ofelia nella pallida luna
e si scambiavano gli occhi per capire più il mondo
le lenti delle lacrime, le lenti dell incendio

lui non voleva la pace e non voleva la guerra
solo gettare quel ponte tra l infinito e la terra.

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“il passato non si dimentica di te..”

LE GUERRE COMINCIANO DOVE SI DECIDE
MA NON FINISCONO DOVE SI VORREBBE.

NICCOLO’ MACHIAVELLI

sleepers/ il cannochiale

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“..coscenza pulita.mai usata”

In un periodo nel quale le folgori del “mondo libero” si abbattono sulla teocrazia iraniana, ancora inebriata dall’odore del sangue versato dai suoi (vilipesi) figli, passa sotto silenzio (sospetto?), una vicenda che ostenta la coscienza sporca dell’Europa.
Questi i fatti.
Martedì, 23 giugno, la polizia bulgara arresta l’ex premier kosovaro Agim Ceku. E’ colpito da un mandato di cattura internazionale, corredato da un curriculum vitae che farebbe impallidire il nostrano Totò Riina. L’ex leader della guerriglia indipendentista albanese, difatti, è ritenuto dai magistrati serbi (ma non solo da loro), responsabile dell’uccisione di 669 cittadini serbi e di 18 persone di altre minoranze in Kosovo. Nefandezze compiute nel 1995, nel corso dell’operazione “Olutja” (tempesta). Oltre alle accuse di tortura di circa 500 persone, durante il conflitto del 1999.

La magistratura bulgara ha tempo sino a domenica, 28 giugno, per pronunciarsi sulla richiesta di estradizione avanzata dalla giustizia serba. Tuttavia, giovedì 25 giugno, decide di liberare il “sant’uomo”, con il solo vincolo a non lasciare il paese sino al 2 luglio. Termine entro il quale , il procuratore regionale, Kamen Pechev, avrebbe avuto margine per un improbabile ricorso.
Polemiche al calor bianco, manco a dirlo, fra il ministro della giustizia serbo Slobodan Homen e quello bulgaro. Quest’ultimo, ad imbarazzata discolpa, esibisce un documento che vanifica il mandato dell’Interpol: una lettera firmata dal Primo Ministro del Kosovo, Hashim Thaci, nella quale si attesta che Ceku è un membro del team di diplomatici del Kosovo.
Non bastasse, alla lettera di Thaci viene affiancata quella “griffata” dal prestigioso (ancora per poco, se continua così) marchio delle Nazioni Unite. Missiva nella quale si certifica che Ceku agisce e si muove sotto la responsabilità della Missione delle Nazioni Unite.
E siccome non “c’è due senza tre”, ecco spuntare la lettera del capo del Comitato per politica estera Solomon Pasi, che formalizza l’esistenza di un invito ufficiale per visitare la Bulgaria.
Singolare la capacità di quest’uomo di sfuggire alla giustizia internazionale.
Nel 2003, a Lubiana, viene arrestato, ma immediatamente liberato perché la MINUK (forze operative della NATO) invia una lettera con la quale disconosce la competenza del tribunale di Pristina, latore del mandato di cattura.
Nel 2004 cambia lo scenario, Budapest, ma non l’epilogo.
Ceku viene arrestato all’aeroporto. Roba di poche ore. Il tempo che la polizia ungherese lo lasci libero perché cittadino con passaporto croato. Niente male come scusa, almeno per uno nato a Pec, in Kosovo, (nel 1960) e formato al ginnasio militare di Belgrado
L’Ungheria aveva all’epoca arrestato anche Hashim Thaci, caro amico della nostra “primula rossa”. Anche in quel caso, diversi interventi diplomatici “pesanti” risolsero la questione in un batter d’occhio. Nell’occasione, assunsero particolare rilievo i servigi dell’amministratore US del Kosovo, Michael Steiner, e del capo della missione dell’ONU nel Kosovo, il finlandese Harri Holkeri (chissà perché i diplomatici finnici sono sempre tra i piedi…).
Ma non è finita…
Il 3 maggio del corrente anno, Ceku giunge in Colombia per partecipare ad un seminario internazionale per la smobilitazione e il disarmo, nella città di Cartagena. La pover’anima viene arrestata, sempre in virtù dello stesso mandato Interpol, corredato dalle solite accuse.
Nel giro di sole 72 ore, lo straordinario uomo di pace viene impacchettato e spedito a Pristina (previo un doveroso “scalo tecnico” a Parigi). Secondo il “Resau Voltaire”, è stato proprio l’ex Alto Rappresentante speciale del Segretario generale dell’ONU nel Kosovo, Bernard Kouchner (oggi ministro degli esteri dell’Esagono), a premere presso il presidente colombiano per non estradare Agim Ceku in Serbia.
Perché mai il co-fondatore di “Medici senza frontiere” sia così interessato alla metodica protezione di questo criminale di guerra, non ci è dato sapere.
L’impegno di Kouchner in favore di Agim Ceku appare però un “filino” sospetto.
E siccome non sempre “la calunnia è un venticello”, appare doveroso riportare, a corredo del tutto, un’ultima informazione.
La fonte non è propriamente quella di una lavandaia ma, piuttosto, quella di un’autorevole esperta di criminali di guerra. La controversa Carla Del Ponte, oggi ambasciatrice elvetica in Argentina. Già collaboratrice stretta di Falcone, fatale a Slobodan Milosevic, Radovan Karadžic e qualche altra dozzina di gentiluomini ai quali Agim Ceku dovrebbe essere doverosamente associato.
Secondo l’ex procuratrice del Tribunale Penale Internazionale per l’ ex Jugoslavia (ICTY), alti responsabili albanesi del Kosovo organizzarono l’eliminazione di centinaia di prigionieri serbi, i cui organi furono successivamente rivenduti.
Nel suo libro, “La Caccia”, la Del Ponte specifica che circa 300 prigionieri, soprattutto serbi ed altre minoranze slave (fra cui non mancavano le donne), furono trasportati nel 1999 dal Kosovo in Albania, dove vennero rinchiusi in un luogo rigorosamente segreto.
Come nel miglior film dell’horror, solerti chirurghi prelevavano i loro organi in base alle liste di attesa. Organi che venivano celermente inviati, tramite l’aeroporto di Tirana, verso cliniche all’estero per essere impiantati su pazienti disposti a pagare senza indugi.
Con una glaciale precisazione da parte della Del Ponte: “le vittime private dell’espianto di un rene venivano rispedite nella loro baracca fino al momento dell’espianto dei rimanenti organi”.
Sorge spontanea una domanda.
Ma il filantropo Bernard Kouchner, proprio in quel periodo in Kosovo (e non certo con un incarico da portierato), queste cose le sapeva?
Una foto di quel periodo lo ritrae assieme ad altri papaveri eccellenti, intento nel giurare, in giovialità sospetta, di condurre il Kosovo all’indipendenza.arton159999-3f028

Una foto ritrae i protagonisti: da sinistra, Hachim Tachi (allora capo del UÇK, attuale primo ministro del governo del Kosovo), quindi Bernard Kouchner (allora amministratore dell’ONU al Kosovo, oggi ministro degli esteri francese), Sir Mike Jackson (ex comandante delle truppe britanniche in occasione del massacro del Bloody Sunday in Irlanda, all’epoca comandante delle forze d’occupazione NATO, oggi consulente di una ditta di mercenari), Agim Çeku (capo militare del UÇK, accusato di crimini di guerra da parte dell’esercito canadese e dalla Serbia) e, a destra, il generale Wesley Clark (allora comandante supremo della NATO, oggi venerato lobbista per i biocarburanti).
Forse che tanta attenzione verso il criminale di guerra Ceku sia una cambiale da pagare per segreti inenarrabili che infangherebbero l’ex co-fondatore di Medici senza Frontiere?
Chissà.
Intanto, per rincuorare gli scettici, informo che la pubblicazione del summenzionato libro di Carla Del Ponte venne giudicata “inadeguata” dal governo elvetico. Tanto che Berna proibì alla signora Del Ponte di partecipare a Milano ad un’operazione di promozione del libro, ritenendo che questa fosse incompatibile con il suo status di ambasciatrice della Svizzera in Argentina.
Chissà che coscienza avrà mai Bernard Kouchner? Forse quella descritta dallo scrittore polacco Stanislaw Jerzy Lec per un suo personaggio: “Aveva la coscienza pulita. Mai usata”.
Vedremo.

maurizio de santis

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